Il potere delle parole nella poesia giapponese
a letteratura giapponese è stata caratterizzata a lungo da produzioni in lingua cinese, usata soprattutto dalla classe nobiliare e nella sfera politica, e solo successivamente in lingua giapponese, che venne legittimata dopo esser stata utilizzata solo dalle donne a partire dal periodo Heian (794 – 1185). Le prime tracce di poesia giapponese, però, risalgono ai testi redatti già nell’VIII secolo in cui si racconta l’origine divina dell’intero Giappone e della famiglia imperiale, ovvero il Kojiki e il Nihonshoki. Data la loro natura, che attribuisce queste kayō “canzoni” a personaggi leggendari, è altrettanto antica anche la tradizione che prevede il concetto di kotodama come elemento specifico di questa produzione arcaica.
Il kotodama è la “parola-spirito”, la quale si credeva possedesse un potere intrinseco capace di agire sul mondo materiale, sia nel caso di un buon augurio che di una maledizione, e che era possibile evocare in particolare attraverso i rituali animistici shintoisti. Ancora oggi possiamo in qualche modo osservare quest’attenzione alle parole, magari non con la stessa estrema precauzione ma sempre con una venatura di superstizione e scaramanzia, non solo nel quotidiano ma anche in anime e manga, dove spesso al nome di un personaggio o di un oggetto viene data grande rilevanza in quanto già espressione del suo influsso magico. E così anche nella poesia giapponese, forse ancor di più che in altre forme artistiche, possiamo ritrovare questa forza superiore, racchiusa tra versi, more e figure che, per quanto a noi risultino poco familiari, riescono comunque a catturare immagini di grande atmosfera e pathos.
La “Raccolta delle foglie” e il seguente sviluppo della poesia giapponese
Sempre nell’VIII secolo, precisamente nel 759, viene completata la prima grande antologia di poesie antiche, il Man’yōshu, anche detto Raccolta delle diecimila foglie – poiché il kanji di foglia 葉 presente nella parola 万葉集Man’yōshu si usa anche per il termine 言葉 kotoba cioè parole –, che in realtà contiene circa 4500 componimenti accuratamente selezionati. Questi assumono diverse forme ma la più importante per i secoli successivi fu senza dubbio il waka, una poesia breve che segue uno schema preciso di more.
Le more sono ancora oggi l’unità della prosodia giapponese e coincide solo parzialmente alle sillabe che vanno anche a comporre gli “alfabeti” giapponesi hiragana e katakana. Il waka in particolare, nella sua forma più diffusa, era composto di 31 more e veniva scritto tutto su un’unica riga. Oggi in traduzione si è diffusa la pratica di dividerlo in cinque “versi”, tra i quali si applicano dunque delle cesure che ne delineano il ritmo, dando anche maggior risalto ad artifici retorici particolari che non trovano corrispondenza totale con quelli occidentali: per esempio, il kakekotoba “parola-perno”, utilizzata in quanto nel giapponese sono presenti molti omofoni che permettono di dare un doppio significato alla parola stessa, che andrà a legare due immagini diverse.
Già in questa opera si possono osservare i componimenti scritti sia da uomini che da donne, con temi che variano dalle elegie per membri della famiglia imperiale a poesie d’amore e struggimento di carattere privato, come la morte di una persona amata; così come sono già presenti temi legati alla contemplazione della natura nei suoi colori e nelle sue forme, per esempio le foglie d’autunno, la luna, o i fiori e gli animali simbolo di emozioni personali come il fiore di susino (apprezzato ancora prima dei sakura) o l’uccello del cuculo; e addirittura troviamo lodi al sake e brevi sguardi lanciati alle classi inferiori e alla loro quotidianità.
Dopo il Man’yōshu seguirono altre antologie, nelle quali il waka non trovò lo spazio che invece ricevette nel successivo Kokinshū. Commissionato direttamente dall’imperatore Daigo, le poesie furono raccolte da quattro grandi poeti tra cui Ki no Tsurayuki, che selezionarono componimenti di altri autori tra i quali i cosiddetti “Sei Geni Poetici”, tra cui spiccano Ariwara no Narihira (protagonista di un’altra opera, l’Ise monogatari, che lo dipinge come modello ideale di uomo del periodo Heian) e Komachi, dama di corte le cui poesie d’amore sono famosissime.
Il Kokinshū si distinse dal Man’yōshu proprio per questa attenzione maggiore alle poesie composte da poeti di rilievo, cosa che portò anche a una diminuzione dei componimenti raccolti ma non per questo meno incisivi dal punto di vista letterario. Questa selezione più accurata ha dato sicuramente maggior stimolo alla produzione poetica, tanto che si diffuse sempre di più lo utaawase: vere e proprie gare di poesie nelle quali, spesso, si dava un tema sul quale comporre sul momento uno o più waka.
Il waka si sviluppa così sempre di più, arrivando a inserirsi anche in opere di prosa, come gli uta monogatari, la cui narrazione veniva inframmezzata molto spesso dalle poesie (chiamate uta appunto, parola che oggi indica genericamente le canzoni) composte e declamate ad alta voce dai personaggi: si creava così una scena nella scena, dove l’azione principale si ferma per dare ascolto e voce ai loro pensieri più intimi facendo uso di metafore sempre più consolidate (come la famosa immagine delle maniche bagnate di lacrime). L’esempio più conosciuto e comunque più importante sta nel Genji monogatari, in quanto la sua stessa autrice si dilettava moltissimo nella composizione poetica: nell’opera magna di Murasaki Shikibu sono presenti infatti ben 800 waka, cosa che ha contribuito alla diffusione della poesia giapponese antica anche nei secoli a venire, fino ai giorni nostri, poiché in molti casi vengono fatti riferimenti a poesie contenute nelle raccolte precedenti. Anzi, forse è proprio anche grazie al Genji monogatari che ancora oggi tante delle poesie contenute in antologie come il Man’yōshu e il Kokinshū sono ricordate o in qualche modo riconosciute.
La poesia nella cultura pop
Infatti, un altro modo con cui è stato possibile conservare la memoria (nel senso letterale del termine) di numerose poesie è stato attraverso il gioco. Se nelle nostre scuole si tende a far memorizzare pedissequamente quantomeno i primi versi della Divina Commedia o dell’Infinito di Leopardi, in Giappone, grazie all’arrivo dei portoghesi, si diffusero le karuta e in particolare le uta karuta.
Karuta è il nome generico per indicare le carte da gioco che già nel XVI secolo giunsero grazie agli scambi commerciali tra Giappone e mercanti europei. In parallelo ad altri giochi di carte come il più conosciuto koi-koi, giocato con le carte hanafuda, venne creato anche un mazzo di uta karuta composto da 200 carte sulle quali sono stampate le 100 poesie più notevoli di altrettanti autori importanti, tra imperatori, politici, dame, scrittori e monaci. Il gioco consiste nel riuscire ad accoppiare le 100 carte che contengono la prima parte delle poesie con le altre 100 che riportano la loro conclusione.
La sua peculiarità non poteva, prima o poi, non essere messa in risalto anche nel mondo anime e manga: in particolare, ne parla con grande passione Chihayafuru, che è stata un’opera apprezzatissima e ha ridato linfa alle competizioni di karuta in Giappone. D’altronde, la sua autrice era lei stessa membro di un club scolastico dedicato ai giochi di carte e si vede che non ha mai perso l’interesse, trasmettendolo ai suoi lettori già a partire dal titolo del manga: Chihayafuru, infatti, è una makurakotoba, un’altra figura retorica che modifica una parola rendendola una sorta di epiteto o parte di una associazione stereotipa. Insomma un’altra opera che, al pari di quelle finora citate, assume il compito fondamentale della degna diffusione della poesia giapponese antica, elevandone ancora di più il ruolo storico e culturale.