Deep Water – Acque profonde è il ritorno alla regia di Adrian Lyne, ma stavolta i cadaveri riemergono in superficie
bbiamo già celebrato il ritorno sulle scene di Adrian Lyne dopo 20 anni dall’ultima fatica, omaggiandolo con un articolo sul suo cinema erotico (e non solo). C’era molta attesa quindi per Deep Water, nella traduzione italiana Acque profonde, arrivato nel Belpaese su Prime Video il 18 marzo.
Se riflettiamo ancora un po’ sulla filmografia di Lyne, autore di pellicole cult come Attrazione fatale, Proposta indecente, Unfaithful – L’amore infedele e la sua generale predilezione per l’adulterio cinematografico, ecco che con un nuovo film con l’incantevole e bravissima Ana De Armas, che possiamo definire l’attrice del momento, e un Ben Affleck teoricamente a suo agio con i thriller dopo Gone Girl di Fincher, le aspettative si innalzano.
Come nel caso di Proposta indecente, il regista sceglie di riadattare un romanzo, stavolta si tratta dell’omonimo libro di Patricia Highsmith. È un’opera del ’57, quindi richiede un’attualizzazione, ma per il suo cinema Lyne ha bisogno soltanto di piccoli accorgimenti, mirati.
Ecco così che il protagonista Vic Van Hallen, da titolare di una casa editrice diventa l’inventore di un microchip per droni militari, quindi un uomo sostanzialmente in pensione e con una grossa rendita, ma anche molto tempo libero.
Tempo che dedica prettamente alla sua coltivazione di lumache, che tratta con i guanti.
-“Le lumache devono avere lo stomaco completamente vuoto prima di essere mangiate, altrimenti ti avvelenano”
-“Allora non le mangiamo”
-“Chi può dirlo…”.
Questo lo scambio di battute tra Vic Van Hallen e un intimo amico dell’avvenente moglie Melinda, interpretata da Ana De Armas. Se conoscete un po’ il cinema di Lyne, avrete capito dove potrebbe andare a parare.
La relazione tra i due coniugi è tossica e frutto di una sorta di accordo prematrimoniale, per cui Melinda avrebbe continuato a condurre una vita al di fuori dai canoni tradizionali e libertina, flirtando con altri uomini anche davanti a Vic, ma restando con lui e dandogli una figlia, Trixie, che chiaramente è molto più legata al padre.
Comprendiamo da subito che l’impassibile protagonista – e in questo Affleck sa essere piuttosto bravo – non resisterà a lungo a guardare la moglie comportarsi in modo sconveniente, tornare ubriaca quasi tutte le sere e chi più ne ha, più ne metta.
Detto ciò, probabilmente l’aspetto più riuscito del film è il senso di rabbia e disgusto che è in grado di scaturire nella prima parte. Una sensazione che cresce, non lasciandoci capacitare di come quest’omone tutto d’un pezzo possa restare di ghiaccio di fronte agli atteggiamenti a dir poco bislacchi della moglie, al punto che ti verrebbe voglia di scuoterlo per dirgli “svegliati, fa’ qualcosa!”.
Se pensiamo che la Highsmith ha scritto quest’opera nel 1957, comprendiamo quanto questi temi potessero far più scalpore all’epoca rispetto ad ora, ma sebbene i Vic e Melinda di Lyne rappresentino l’evoluzione in momento storico ben più progressista, ciò che avviene tra i due resta ugualmente scioccante, manifestando sbigottimento da parte della loro cerchia di amici, a partire da quelli di Vic.
Molti dei precedenti lavori di Lyne si ponevano domande sui fattori che potessero portare alla crisi di un matrimonio nato con i giusti presupposti, ma qui il regista si trova al cospetto di una narrazione contraria, dovendo rispondere a cosa può tenere in piedi un matrimonio infelice. Una domanda alla quale in qualche modo abbiamo già risposto, ovvero una figlia ma soprattutto quell’assurdo patto tra i due.
Ma quanto può resistere un uomo innamorato?
Il rifiuto, il disprezzo e la rabbia crescono e riescono a distinguersi pur nel volto monoespressivo di Affleck, ovvero di Vic, che chiaramente non è una persona stabile, preferendo la compagnia delle lumache a quella degli esseri umani, rifiutando spesso svago, alcool e qualsiasi forma di divertimento, concentrato esclusivamente sulla moglie e sui suoi comportamenti.
Tutto questo funziona, ma manca qualcos’altro, ben più importante.
Per fare un buon thriller erotico, ci insegna lo stesso Lyne, servono proprio le parole che compongono il sottogenere cinematografico.
L’erotismo in parte c’è, perché banalmente basta qualche spezzone di Ana De Armas in deshabille per far salire le lancette, ma è tutto troppo alla luce del sole da rendere le stesse sortite extraconiugali meno passionali rispetto a ciò a cui eravamo abituati col regista.
La componente thrilleristica manca purtroppo quasi del tutto. Non c’è nessuno che spacca improvvisamente una palla di vetro con neve in testa al rivale, e le rarissime scene di violenza sono sempre telefonate; se non è altro è interessante il fatto che col crescere dell’ira di Vic, ci viene mostrato ogni volta qualcosa in più delle varie scene del crimine.
Ma il problema maggiore è che non c’è nessuno che si preoccupa più di tanto di nascondere un cadavere o di celare la propria colpevolezza. Anzi, addirittura ci ironizza sopra, e lo fa anche con gli uomini di Melinda, sebbene questo aspetto sia molto divertente dal punto di vista dello spettatore, che nota le reazioni spesso sbigottite degli altri, così come è spassoso vedere quanto paradossalmente Vic sia fortunato data la sbadataggine e la noncuranza con cui commette determinati gesti.
Il ritorno sulle scene di Adrian Lyne non è esattamente la festa a cui speravamo di partecipare, ma il peso di un’epoca così diversa e una sceneggiatura talmente distante da quelle su cui era abituato a lavorare, fanno perdere gran parte della magia tipica dei suoi thriller erotici più famosi.
Quelle acque profonde in cui ci attendevamo di nuotare spensierati si rivelano un ruscello in cui tocchiamo e in cui emergono corpi in superficie, come paradossale metafora di un fallimento.