Le recenti inchieste relative al mondo dello sviluppo indie fanno emergere le contraddizioni di alcune retoriche del settore

Ormai mi sento quasi in colpa quando scrivo delle tristi vicende videoludiche che, con tremenda regolarità, emergono dalle inchieste, dai report, dai video e dagli articoli che descrivono le condizioni di lavoro dell’industria. In effetti, da qualche anno temi come il crunch e gli abusi sui dipendenti sono diventati ricorrenti, e mi sembra di poter affermare, seppur forse per mera percezione da bolla social, che non ci sia più bisogno d’informare su questi fatti: sono talmente conclamati, capillari e notiziabili che oggi solo un vero e proprio negazionista (o chi è interessato a farlo) può ancora pretendere che fenomeni simili non siano considerati generali e strutturali dell’intera industria.

Ecco perché è difficile scriverne: quando ci troviamo a parlare di queste vicende, il pendolo oscilla sempre di più verso un articolo che sembra inseguire il tema del momento, e sempre meno incentrato sull’effettiva necessità di indagare eventi che fino a pochi anni fa erano omertosamente taciuti.

Quando parlo del minor “bisogno” mi riferisco infatti al discorso sull’indagine, e non all’indagine stessa, che oltre a informare ha il valore aggiunto di poter cambiare in qualche modo le condizioni di vita delle persone. È da questa riflessione che nasce il desiderio di scrivere questo articolo, per cercare di rendere meno superficiale il discorso su questi temi, che a mio parere sta correndo il rischio di diventare anch’esso mero contenuto, come capita quasi sempre a ciò che diventa notiziabile. Perdonatemi dunque se, a seguire, non mi concentrerò sui dettagli già ampiamente descritti dai vari link che citerò: voglio espandere il discorso, non rimbalzarlo.

Negli ultimi giorni, una serie di inchieste, come l’ennesimo ottimo lavoro di People Make Games o l’articolo di Polygon (dell’anno scorso ma citato dal video), ci hanno permesso di scoperchiare un grande non detto della comunicazione aziendale di alcune parti del mondo “indie”: di indie, oramai, c’è davvero molto poco. In effetti, c’è una forte dissonanza tra i modi con cui le aziende cercano di comunicare il loro prodotto “indie” e l’effettiva realtà produttiva alle loro spalle: nelle varie inchieste in esame, ritroviamo infatti le stesse dinamiche incontrate nella grande produzione.

C’è la storia di come il publisher cerchi di coprire il capo del progetto per garantirne la pubblicazione e la spendibilità del nome; c’è la vicenda su come le donne vengano sminuite e messe da parte dai capi, per via di bias pregiudiziali che abbiamo introiettata dalla società; si scopre di come le chat tra colleghi, soprattutto tra quelli con potere decisionale, si trasformino in luoghi dove in nome di una falsa ironia tutto è concesso. In un suo post su Facebook dedicato alla vicenda, Matteo Lupetti ha sottolineato come esista un nome per questo fenomeno: la dissonanza narrativa-industriale. L’opera comunica un’umanità, dei sistemi o dei valori che entrano in conflitto con l’apparato reale che li ha prodotti.

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Ne è passata di acqua sotto i ponti.

Queste dinamiche non sono solo identiche a quella già emerse nella grande produzione, ma mettono anche in mostra un’estensione organizzativa e di sviluppo che poco ha a che fare con il tentativo costante di “autorializzare” il prodotto (e renderlo così “opera”), di ricondurlo a una versione “artigianale” che non possiede. Come spiegava Luca Parri nel suo articolo, l’industria parla di sé in un modo che tende a racchiudere al suo interno tutte le critiche accettabili e le modalità produttive integrabili, negando tramite il disinteresse percorsi alternativi: solo così può essere incluso Kena nella categoria, oramai meramente merceologica, di “indie”. Chi lo ha fatto notare dopo i premi dei The Game Awards è ovviamente stato tacciato di tafazzismo, dato che oramai è considerato masochista ogni lieve alzata di ciglio di fronte a queste strategie tanto stantie quanto, evidentemente, efficaci.

L’ideologia del “there is no alternative” è talmente pervasiva che l’unica cosa che riusciamo a concepire come liberatoria è la lieve concessione aziendale: il risultato sono aziende che si proclamano attente all’ambiente quando i fatti dimostrano tutt’altro; statue di donne fittizie mentre quelle vere subiscono abusi; degli indie col bollino certificato piuttosto che quelli che non riescono ad andare in pareggio.

E sia chiaro che il punto non è, come crede che io stia dicendo il sostenitore del “there is no alternative“, giungere a una forma di eremitismo distaccato dalla realtà, e quindi improduttivo. Il punto è invece sapersi riappropriare di queste dinamiche che sono mera apparenza, ripulirle dalla patina di sfruttamento che emerge da un’analisi lievemente più attenta, e metterle a frutto: potete dire che Inscrpytion è un bel gioco anche dopo averne criticato la nomina tra gli indie. Eppure questa riappropriazione non avviene, e si avverte sempre il bisogno di una forma di autorizzazione da chi il discorso videoludico lo regola (ossia chi detiene i mezzi di produzione di significato, dai media di settore alle aziende stesse). Il concetto di riappropriazione non può prescindere da quello di proprietà: è questo il vero punto del discorso, come vedremo.

Oltre a rendere manifesta, nella sua concreta materialità, l’inconsistenza della definizione “indie” per quello che oggi viene invece così comunicato, gli eventi degli ultimi giorni ci permettono infatti di sottolineare un altro problema: quello della retorica dell’autorialità. Ho già scritto prima che, tramite l’individuazione di una “firma“, spesso le aziende cercano di individuare un nome che permetta di umanizzare quelli che sono processi produttivi spesso figli di immense indagini di mercato e di calcoli puramente economici. Se da un lato uno dei problemi del settore è sicuramente quello della disumanizzazione di chi lavora al suo interno (e lo dico anche e soprattutto lato pubblico ricevente, convinto di avere a che fare con una non meglio precisata Ubisoft, e non con le sue migliaia di dipendenti), dall’altro estremo i “gourmet videoludici” (una nuova forma di hardcore gamer ma, se possibile, ancora più elitista) rimarcano l’artisticità di un prodotto ammantandolo di una volontà autoriale spesso quantomeno dubbia. Si noti che a essere disumanizzato è molto spesso il lavoratore generico, mentre a offrire opportunità di autorializzazione è chi ha più potere.

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Viviamo un ciclo infinito, fatto di definizioni e loro snaturamenti.

Una delle soluzioni ideata dalla grande industria per risolvere il primo problema citato è stato proprio quello di autorializzare direttamente gli studi: il tocco di Naughty Dog, la tradizione Blizzard, la visione di Rockstar, la magia di Nintendo. In realtà, sappiamo che per le problematiche strutturali di questo settore il riciclo di figure professionali tra gli studi è immenso. Inoltre, il fenomeno dell’outsourcing è sostanzialmente onnipresente, e a lavorare su quelle splendide ambientazioni che ci catturano sono anche persone che non entrano mai in contatto con “il tocco, la tradizione, la visione”, come spiega un altro ottimo video di People Make Games.

Di nuovo: per prendere coscienza di queste cose non bisogna per forza negare che effettivamente esistano tradizioni specifiche degli studi (storicamente innegabili), ma magari riflettere sui perché esistano, a cosa servono e se davvero sono emanazione di una squisita scelta individuale, o se invece rientrano in programmazione più complesse sull’identità di un’azienda. E mentre la “vera” autorialità, intesa come il desiderio di un singolo di esprimere qualcosa, cerca di resistere (anche se a volte fiorisce), quella che domina il discorso è in realtà una sua sfumatura negativa: l’autorità. Nel nostro caso, chi detiene il potere decisionale ed economico all’interno delle varie realtà produttive.

Pochi anni fa ci si è resi conto che anche l’indie andava ricondotto all’interno di queste dinamiche: bisognava depotenziarne il successo casuale, troppo evidente agli occhi del pubblico, troppo dannoso per il discorso meritocratico; andava moderato nelle sue pretese, che a fare un gioco fuori dai circuiti tradizionali son solo gli stolti; era necessario sfruttarne l’onda creativa, ma al contempo ricondurla alla serialità. Che a dominare il panorama culturale medio budget (perché, dato che nelle inchieste si parla di publisher come Annapurna) sia questa concezione dell’autore in ottica autoritaria lo confermano anche gli atteggiamenti di chi ha potere all’interno degli studi: il lavoro lo fanno tutti, ma il riconoscimento dello stesso spetta a pochi.

D’altronde, i costanti dibattiti su fenomeni come cancel culture e politically correct ci riconducono allo stesso punto: se il vero tema fosse l’autorialità nel senso creativo, i furibondi eccessi social dei megafoni del pensiero (questo sì) dominante si scaglierebbero quantomeno anche contro gli enormemente più diffusi limiti imposti dalle aziende, ma in quel caso la necessità dell’autorità, colei che detiene i mezzi per produrre e significare, non possono essere messi in discussione. Ed è anzi proprio perché osano dubitare dell’autorità che questi tristi bifolchi ipersensibili vanno silenziati: dalle statue ai videogiochi, è l’autor-ità a sapere cosa è giusto, bello e buono, e non va sfidata. La violenza simbolica esercitata dall’industria si manifesta proprio nel suo essere dolce, non fisicamente violenta, subdola e proprio per questo capace di farsi idea fondante dei nostri modi di vedere la realtà. Si manifesta nell’impossessarsi di un termine, ideato per contrapporsi a essa, e invece inglobato e reso mera merce, privato del suo concetto.

La scena indipendente e alternativa è più viva che mai. A mio parere, anche nella grande e media produzione abbiamo assistito a dei tentativi di creare un discorso alternativo, a livello valoriale e creativo, per quanto rari. Il termine indie, invece, muore per me simbolicamente con la diffusione di queste inchieste: non perché prima fosse particolarmente efficace, dato che il suo fine originale lo ha perso da tempo; neanche per l’impatto dei video e degli articoli dedicati al tema, che impallidiscono di fronte alle news sulla nuova saga di The Witcher; neppure per l’esistenza di un’alternativa. L’indie muore invece perché bisogna trovare un punto da condividere e da cui ripartire insieme, in questa costante fuga dall’economically correct che tutto divora e ingloba. Perché la conseguenza, come dimostrano questi video, è quella di espandere la capacità di chi ha potere di sfruttare i più deboli. Bisogna trovare nuovi termini e parole con cui indicare ciò che davvero vogliamo significare: proposte?