Esperienze importanti fin dalla tenera età possono segnarci per sempre

o dico subito: anch’io, come moltissimi in queste settimane, sono andata in brodo di giuggiole guardando i piccoli bambini giapponesi fare le loro prime commissioni nel programma Old Enough (Hajimete no Otsukai, La mia prima commissione), ora distribuito su Netflix.
Dopo un binge watching fatto di commozione, risate e immedesimazione, però, mi sono trovata a riflettere su vari aspetti che la maggior parte delle persone non ha tenuto in considerazione, forse per via dell’immagine del Giappone che abbiamo in Italia, ancora molto fraintesa e idealizzata. Sono sorti nella mia mente ricordi, più o meno dolorosi, di eventi ai quali sono seguite delle conseguenze che hanno formato la mia persona e non ho potuto fare a meno di mettere a paragone il mio vissuto con quello di questi bambini piccolissimi, intraprendenti ma che, bisogna ricordare, non sono certo pronti alla vita che li aspetta.

old enough bambini soli

Crescere in Giappone da soli

Mettiamo subito in chiaro una cosa: il Giappone non è l’Italia e viceversa. Questi due Paesi sono profondamente diversi a livello culturale e sociale, lo abbiamo già visto e continueremo a parlarne su questi lidi, ma è giusto ribadirlo per metterci alle spalle i tipici commenti di coloro che invece conoscono poco il Giappone e giustamente ne osservano solo la superficie a debita distanza. Old enough è un programma confezionato perfettamente, con un format ormai collaudato per più di 30 anni – sappiamo che in Giappone hanno l’enorme capacità di rendere un reality davvero ingaggiante, come abbiamo constatato con Terrace House – ma basta rifletterci un attimo in più per capire che sarebbe impossibile replicarlo in un altro Paese.

Sappiamo che, per quanto riguarda il percorso scolastico, bambini e ragazzi giapponesi vengono fin da subito indirizzati su una strada fatta di studio intensivo ed esami infernali per entrare nelle scuole migliori, che poi consentiranno un accesso più veloce al mondo del lavoro. Quest’ultimo, come la scuola, è ampiamente criticato in diverse produzioni artistiche, in particolar modo manga e romanzi come quelli di Sayaka Murata, Mieko Kawakami e altri autori contemporanei, che osservano e analizzano a modo loro la pressione verso l’indipendenza volta alla collettività che chiunque riceve dalla più tenera età, fino addirittura al momento di diventare genitori.

La grande differenza sta proprio qui: forse non essendo madre, non posso capire (cit.) ma oserei dire che i bambini italiani siano tenuti molto più sotto supervisione solo dai famigliari più stretti. Se i genitori lavorano, sono magari i nonni o altri parenti a prenderli a scuola e controllarli fino a sera, rendendo l’intera famiglia centrale nell’educazione e soprattutto nella vita quotidiana del bambino, costantemente circondato da adulti che si prendono cura di lui. In Giappone certamente accade la stessa cosa per buona parte delle famiglie ma, come possiamo osservare nel programma, è quasi una priorità rendere i pargoli autonomi quanto prima, tant’è che in Old enough ci sono addirittura bambini che nemmeno hanno compiuto 3 anni. A questa necessità però si somma anche una cultura che fa della comunità e collettività il suo principio più importante, il concetto che permette alla “fabbrica” (come veniva chiamata la società ne I terrestri di Sayaka Murata) di funzionare per tutti, bambini compresi.

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Naturalmente, per il programma viene fatta una selezione molto accurata per valutare attentamente le attitudini del piccolo partecipante, ma vanno osservate anche due cose: non sarà mai davvero solo, in quanto le telecamere lo seguiranno ovunque; e praticamente nessuno di quelli mostrati vive in una grande città, ma in paesi di campagna distanti dalle metropoli dove ci si conosce tutti, o quantomeno ci si rivolge a negozi di fiducia che perciò conosceranno già il bambino. Possiamo osservare luoghi splendidi mentre seguiamo i bimbi zompettare lungo la strada, ma sostanzialmente niente che possa far temere per la loro incolumità, in quanto è comunque possibile affermare che il Giappone sia un Paese tutto sommato sicuro. Inoltre, ancora prima di partecipare effettivamente alla puntata, è chiaro che i bambini siano già stati “allenati” al compito che dovranno svolgere, che sia ricordare cosa comprare al supermercato o la strada per raggiungere un luogo specifico.

C’è stato un tempo in cui ho conosciuto chi non ha avuto la possibilità di ricevere nemmeno questo “allenamento”: vi sfido a vedere comunemente bambini piccoli come quelli del programma (o di poco più grandi) andare a scuola da soli a piedi in un paese medio-grande, figuriamoci poi in una città come Milano o Roma per citare le più popolate. A Tokyo potreste tranquillamente osservare gruppetti di bambini delle elementari prendere il treno per andare a scuola insieme a salaryman e office lady; in Italia abbiamo al massimo gli scuolabus appositi su cui salgono esclusivamente i piccoli scolari, altrimenti sempre accompagnati dai genitori o da chi ne fa le veci.

In Giappone, insomma, i bambini si abituano molto presto a essere “da soli”, a doversi arrangiare e trovare soluzioni, pur mantenendo quel lato infantile che naturalmente può bloccarli e farli scoppiare a piangere, segno che naturalmente non significa siano davvero pronti ad assumersi determinate responsabilità. A proposito di ciò, per esempio, dovrebbe farci riflettere anche il tropo del “ragazzo/a che vive da solo”, molto comune in anime e manga. Anche in Giappone naturalmente esistono regolamentazioni sull’abbandono dei minori, tuttavia non è così lontano dalla realtà che certi teenager vadano effettivamente a vivere da soli, purché sostenuti nell’affitto e nelle varie spese dai genitori (in Giappone infatti non si possono firmare documenti di proprietà se non si hanno almeno 18 anni).

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L’esempio animato più recente di questo stile di vita in solitaria lo abbiamo però proprio con un bambino, Kotaro Sato, protagonista dell’anime Kotaro abita da solo (anche questo presente su Netflix). Il suo è un caso molto particolare: Kotaro è fondamentalmente lasciato a sé stesso, nonostante sia seguito dai servizi sociali a causa di difficili vicissitudini familiari, ma possiede già un’autonomia fuori dal comune che – al di là della pura necessità narrativa – possiamo supporre derivi parzialmente da tutto ciò che abbiamo detto finora, tanto che a volte sembra esser lui a educare gli adulti che lo circondano a essere più responsabili. Il tema della genitorialità e della cura dei bambini si fa sempre più incisivo col passare dei dieci episodi dell’anime e vi assicuro che vederlo dopo la visione di un programma come Old enough è stato ancora più di impatto, visto il contrasto di atmosfera tra le due serie – la prima improntata, fra le altre cose, a mettere in buona luce dei genitori quantomeno “presenti” (nel senso di esserci fisicamente) che educano i figli all’indipendenza, mentre la seconda mette in evidenza le mancanze di un bambino solo.

Cosa possiamo imparare da bambini ma anche da adulti

Detto tutto ciò, non voglio assolutamente affermare che il programma Old enough sia dannoso per chi lo guarda dal mondo occidentale, anzi. Personalmente voglio sperare che ispiri molti genitori o futuri tali a educare i propri figli a piccole mansioni man mano che crescono, per gradi: imparare a riconoscere un luogo e la strada percorsa non può che aiutare a sviluppare l’orientamento; acquistare solo quanto è stato richiesto è il punto di partenza per comprendere l’uso del denaro e il valore delle cose (sì, anche se non si è ancora capaci di distinguere le monete); capire come risolvere un imprevisto permetterà di iniziare davvero a costruire una delle tante skill che oggi amiamo mettere sui nostri curricula, il problem solving.

Per esperienza diretta, ritengo che i bambini di oggi siano forse molto più intelligenti e svegli di quanto pensino i loro stessi genitori. Bisogna dunque sì “sfidarli” e cominciare a far guadagnare loro la fiducia che madri e padri giapponesi ripongono nei loro figli; d’altronde quella fiducia, quell’orgoglio già è grande, se si desidera mostrare al mondo cosa è capace di fare il proprio figlio e scommetto che qualunque genitore vorrebbe fare altrettanto. Tuttavia non possiamo pensare di cambiare dall’oggi al domani una cultura, la nostra, in cui la presenza genitoriale si fa più scrupolosa e meno carica di aspettative; possiamo solo, nel nostro piccolo, compiere piccoli passi per formare le generazioni del domani ad avere innanzitutto cura di sé e degli altri più di quanto non siamo stati in grado noi finora. Altrimenti non saranno mai davvero “abbastanza grandi” per affrontare le vere difficoltà della vita, quelle che li segneranno per sempre.

Alessia Trombini
Torinese, classe '94, vive dal 2014 a Treviso e si è laureata all'università Ca' Foscari di Venezia in lingua e cultura giapponese, con la fatica e il sudore degni di un samurai. Entra in Stay Nerd nel luglio 2018 e dal 2019 è anche host del podcast di Stay Nerd "Japan Wildlife". Spende e spande nella sua fumetteria di fiducia ed è appassionata di giochi da tavolo, tra i quali non manca di provare anche quelli a tema Giappone.