Rappresentazione queer in anime e manga? C’è sempre stata, e sta migliorando
lcuni pensano che l’inserimento di personaggi ed elementi queer negli anime sia uno sviluppo recente, dettato magari dal famoso “politicamente corretto”, ma devo smentirvi: dove c’è letteratura c’è esplorazione psicologica e sociale e dove ci sono questi due elementi, vi accorgerete che non tutto corre su due binari distinti. Regola che vale anche per i manga, e sin dagli albori del genere, con i primissimi lavori del dio del manga Osamu Tezuka, personaggi queer hanno “calcato” la carta delle riviste giapponesi per ragazzi. La quasi totalità non era “dichiaratamente” queer (per come viene inteso il coming out in Occidente) per una serie di fattori linguistici e sociali, ma tutto ciò non li rende meno identificabili.
Si parte con La principessa Zaffiro di Osamu Tezuka, che già dai primi anni ’50 aveva una protagonista dall’animo diviso tra maschile e femminile in un corpo di ragazza. L’adattamento in italiano del titolo si concentra molto sull’aspetto fisico della protagonista, un netto contrasto con il titolo originale “Ribon no Kishi” (Cavaliere del Nastro). Il titolo inglese, “Princess Knight”, cattura perfettamente la natura duale di Zaffiro. Ovviamente, essendo protagonista, il personaggio di Zaffiro ha qualità positive e attraverso di esso e la sua peculiare natura si possono fare molteplici riflessioni sull’obsoleto binarismo di genere, misoginia, ruoli di genere e aspettative sociali.
Gli anni ’70 vedono la pubblicazione di forse uno degli shōjo-BL più influenti di sempre, ovvero Il poema del vento e degli alberi di Keiko Takemiya. Un poema dalla narrazione tragica, con elementi disturbanti e personaggi dalla psiche contorta. I protagonisti Gilbert e Serge hanno dei tratti androgini e simili tra loro – al contrario di molti yaoi moderni, che forniscono una rappresentazione annacquata ed eteronormativa dove in una coppia esiste strettamente un “uke” (passivo e dai tratti femminili) e “seme” (attivo e dai tratti iper-mascolini). Kaze to ki no uta è inoltre scevro di quella malsana feticizzazione della violenza sessuale che tanto piace ai boys love più generici: stupri e violenze sono presenti, ma sono contestualizzati e, soprattutto, dipinti come irrimediabilmente negativi. È disturbante, non affascinante, e non viene minimizzata. Se questo manga venisse pubblicato oggi per la prima volta, verrebbe sicuramente descritto come un’opera sovversiva.
L’esplorazione di genere degli shōjo post ‘70
Dagli anni ’70 in poi abbiamo una vera e propria esplosione di protagoniste shōjo che, in un modo o nell’altro, sfidano le regole di genere e/o l’eteronormatività. Icone simili sono arrivate anche in Italia e nel resto dell’Occidente, più o meno mutilate dalla censura ma comunque iconiche e irriducibili nella rappresentazione queer negli anime e manga. Come dimenticare l’iconica Lady Oscar (Le rose di Versailles), molto simile alla Principessa Zaffiro di Tezuka per la sua esplorazione del genere e dei suoi ruoli sociali? O Utena, anche lei sul filo che – secondo alcuni – separa nettamente maschio e femmina; aggiungendoci per di più una romance omoromantica con Anthy.
Da notare come, in tutti questi esempi, ci sia un’esplorazione del genere e della sessualità effettuata sempre da personaggi nati donne. Inoltre, sia l’autore del manga che il pubblico per cui esso viene inteso è, anch’esso, del tutto declinato al femminile, con un personaggio che, per un motivo o per un altro, presenta comportamenti o tratti del sesso opposto, esplorando e sfidando i ruoli del genere che gli è stato assegnato alla nascita.
Rappresentazione queer nell’epoca d’oro degli anime: il microfono passa anche agli uomini
Arriviamo un periodo in cui la produzione esplose, approdando in maniera consistente anche sui lidi occidentali. Con un tale aumento di prodotti e personaggi, era matematico che anche la rappresentazione queer negli anime crescesse esponenzialmente, per di più espandendosi anche a generi oltre allo shōjo e venendo prodotta anche da uomini. Esempi di questo tipo avvalorano Hana di Tokyo Godfathers, una donna transgender giapponese finita nello status di senzatetto proprio per la sua identità di genere, oppure Mokoto Kusanagi (Ghost in the Shell). Quest’ultima, nonostante non sia dichiaratamente queer, ha affascinato migliaia di fan sotto l’ombrello transgender per la similarità che dimostrava con la loro esperienza di vita – oltre che per la sua approfondita esplorazione della psiche. In aggiunta, la protagonista viene mostrata molteplici volte a condividere scene di sesso con altre donne. Tutti questi elementi non hanno sminuito l’influenza di quest’opera, che tra i vari prodotti che ha ispirato vanta l’insignificante bruscolino che è The Matrix.
Come non parlare poi di Evangelion, un mecha shōnen nell’olimpo tra le opere animate più importanti e influenti di sempre? Shinji è un personaggio che alcuni hanno amato e altri odiato, inutile negarlo; ma risulta ugualmente affascinante notare come sia un protagonista atipico per uno shōnen. Presenta alcuni classici elementi mascolini, come l’attitudine a pilotare macchine da guerra o il combattere per proteggere chi ama; allo stesso tempo, però, viene rappresentato spesso a ricoprire i ruoli sociali che generalmente verrebbero affidati a donne (fare le faccende domestiche, per esempio). Non solo, ma quando fa trasparire comportamenti mascolini e tossici, come la spacconeria, egli viene punito dalla trama. Unito al suo fisico longilineo, che non viene gonfiato di muscoli (al contrario della maggioranza dei colleghi shōnen), tutto questo sottolinea il suo spirito androgino. La sua relazione omosessuale e romantica con Kaworu è talmente conosciuta che parlarne ritengo sia un ripetere l’ovvio.
E dal lato dello shōjo? Beh sicuramente non siamo rimasti a secco: autrici come il gruppo CLAMP ha ben istruito il proprio pubblico alla regola del “queer fino a prova contraria”, una ilare quanto sovversiva alternativa all’eteronormatività. Questo gruppo e le sue opere hanno fornito una sfilza infinita di personaggi sfaccettati anche nelle proprie attrazioni romantiche, come Li Shaoran, Touya e Yukito (Cardcaptor Sakura), la quasi totalità del cast di CLAMP Campus e xxxHolic e molti, molti altri. Negli stessi anni spopola anche Sailor Moon, con le innamorate Sailor Neptune e Uranus – quest’ultima famosa anche per la sua esplorazione di genere – e le infauste Sailor Stars, che purtroppo hanno visto la loro fluidità di genere comicamente e brutalmente censurata dal doppiaggio italiano.
Come i funghi: la rappresentazione queer negli anime e manga moderni
Al giorno d’oggi, la rappresentazione di personaggi o dinamiche queer negli anime è talmente diffusa che non si ha nemmeno più bisogno della lente d’ingrandimento per trovarla. Certo, bisogna sempre tenere a mente che la lingua giapponese non è avvezza alla chiarezza – preferendo un complesso sistema di metafore e/o silenzi – senza contare che a livello legislativo ci sono ancora molti paletti e ostacoli che impediscono di parlare a cuor leggero di determinati temi. Eppure, nonostante questo, capisaldi nel panorama di anime e manga hanno fatto la loro parte. Basta pensare alle innamorate Ymir e Historia o al personaggio genderless di Hange dell’Attacco dei Giganti o l’intelligentissima ingegnere Leeron (Tengen Toppa Gurren Lagann) che riesce a farsi apprezzare nonostante l’aver subito un iniziale trattamento dozzinale e stereotipato da parte della produzione.
Uno dei miei preferiti è Nathan Seymur, nome di battesimo dell’eroe di Fire Emblem, tra gli eroi usciti dalla penna di Masakatsu Katsura e facente parte del cast di Tiger & Bunny. Questo personaggio ha avuto un trattamento altalenante: se da una parte la sua identità e orientamento non erano visti come un problema dai suoi colleghi e amici, e viene rappresentato come una persona potente di buon cuore, specialmente nella prima stagione cadeva in alcuni stereotipi molesti del “gay palpeggiatore”. Tuttavia, nel corso degli anni e delle stagioni questo personaggio si sviluppa e prende un ruolo centrale nella narrazione: si parla di discriminazione, omofobia, identità di genere, disforia e orientamento sessuale – un avvenimento quasi incredibile per una produzione animata giapponese.
Ci sono poi intere serie che non sono altro che una gigantesca metafora per la diversità e l’esplorazione di sé: l’esempio più lampante in tempi recenti è Beastars che, con la sua narrazione a volte metaforica, a volte talmente palese da essere un diretto commentario sulla nostra società, affronta i temi dell’orientamento sessuale, dei ruoli di genere, dello stigma, delle aspettative sociali e molto altro. In realtà, la rappresentazione queer in questo anime si presenta in qualsiasi salsa possibile ed immaginabile – a volte, si può leggere in più di un senso – grazie anche al sotterfugio delle pulsioni sessuali rappresentate come “fame” o “desiderio di divorare”. Inutile sottolineare anche la potenziale interpretazione come commentario razziale, condiviso anche da colleghi come il film Disney Zootropolis, che con Beastars presenta molte somiglianze.
Yaoi, yuri e il resto della produzione manga: i compartimenti stagni tengono ancora?
E sul fronte dei manga e anime LGBTQ+ per antonomasia, invece, come siamo messi? Beh, è innegabile che la stragrande maggioranza della produzione di yuri e yaoi sia ancora legata ad un’estrema feticizzazione delle relazioni queer – in particolare, quelle omosessuali. Ancora moltissime produzioni rappresentano un binario – già obsoleto nelle relazioni etero – come colonna portante delle dinamiche dei loro personaggi, oppure dinamiche di potere malsane ma dipinte come assolutamente normali e positive. Nonostante tutto questo, sarebbe disonesto affermare che non ci sia stato un collettivo sforzo e miglioramento, che ci ha portati a passare dalle opere yaoi più classiche degli anni duemila – come per esempio Junjou Romantica, Sekaiichi Hatsukoi e altri – a opere che si interfacciano molto di più alla nostra realtà sociale, con dinamiche di potere più sane e ruoli finalmente slegati da “uke e seme”. Esempi di questi ultimi possono essere opere come Given, che ha spopolato in anni recenti, arrivando anche nel mainstream, e il sottovalutato Dokyuusei.
Ci si sta avvicinando sempre di più al momento in cui saranno autori queer a scrivere storie queer anche nel mainstream: la serie Il marito di mio fratello scritta da un uomo gay, per esempio, ha avuto un riscontro talmente positivo da meritare un adattamento live-action. La barriera invisibile che impediva l’accesso nel mainstream di opere d’intrattenimento dai forti e innegabili elementi LGBTQ+ sta cedendo e iniziamo a vedere serie come Yuri On Ice dominare il proprio anno di pubblicazione e piattaforme titaniche come Shonen Jump dare spazio anche a serializzazioni come Blue Flag, dove vengono rappresentati interessi amorosi principali queer e vengono messi in discussione orientamento e ruoli di genere.
Di lavoro da fare ce n’è molto, ma è innegabile che anche solo nelle ultime due decadi si siano fatti passi da gigante, forse complice anche il mercato occidentale, improvvisamente recettivo all’intrattenimento animato giapponese dopo il duemila. Chissà dove saremo tra altri dieci o vent’anni.