Dentro e fuori le mura di Versailles, si consuma la rivoluzione di Lady Oscar
e rose di Versailles è il titolo originale dell’opera di Riyoko Ikeda, molto più evocativo e inclusivo del titolo nostrano, che mette al centro di tutto la protagonista, l’amatissima Lady Oscar. L’intento della sua mangaka era effettivamente parlare non solo di lei ma di tutte le donne coinvolte negli intrighi di corte e nella rivoluzione che in breve tempo sarebbe scoppiata per le vie di Parigi; tuttavia, non è del tutto sbagliato aver focalizzato, nella versione italiana, l’attenzione su Oscar Francois de Jarjayes, in quanto esempio supremo della lotta interiore combattuta da ognuna di queste donne, ciascuna intenta a trovare il suo posto nella labirintica Versailles e al contempo farsi strada al meglio delle proprie possibilità, non uguali per tutte.
Né uomo né donna… sa soltanto quello che non è
Conosciamo tutti la storia di Lady Oscar: dopo aver già avuto diverse figlie femmine, il generale de Jarjayes decide di allevare l’ultimogenita come un maschio, per tramandare la tradizione militare della famiglia. Oscar, dunque, nasce, cresce e corre con la spada in mano, insieme al suo fedele André Grandier, che la accompagna in ogni suo passo nel diventare quell’ideale impostole dal padre dalla nascita, pur vedendola da sempre con l’occhio (pun intended) di un uomo che osserva la donna che ama.
I sentimenti della nostra Lady Oscar riguardo la propria posizione, però, cominciano a vacillare nel momento in cui mette piede alla corte di Versailles. Entrare in contatto con la bellissima e un po’ ingenua Maria Antonietta e con le guardie di cui diventa comandante le farà capire come viene percepita agli occhi altrui: affascinante più di altri uomini per le nobildonne pronte a commentarne la bellezza elegante e austera, disinteressandosi completamente del suo genere; troppo mascolina per essere considerata davvero un possibile partito ma lo stesso anche troppo femminile per portarle subito il rispetto dovuto al suo rango. Addirittura, c’è chi, come il Conte Axel Von Fersen, dapprima, non si rende conto che Oscar in realtà è una donna, segnando definitivamente in lei l’inizio di una crisi d’identità che troverà pace solo verso la fine della sua storia, quando ormai tutto andrà perduto ancora prima di poter finalmente iniziare.
Lady Oscar rimane invischiata dalla nascita in questo dualismo dove non le è consentito nemmeno scegliere cosa essere, poiché da un lato vorrebbe dire sacrificare ogni cosa che ha costruito, dall’altro significherebbe tradire la sua Regina, alla quale è fortemente affezionata e di cui percepisce la stessa condizione di metaforica prigionia, oltre che deludere le aspettative che molti ripongono in lei in quanto comandante. Proprio Maria Antonietta, poi, la taccerà di insensibilità quando si confiderà con lei riguardo il suo amore per Fersen, ricevendo da Oscar un rimprovero inaspettato: Oscar, in tale occasione, dopo l’enorme sforzo che le ha richiesto il negare i propri sentimenti per Fersen, avrà conferma anche da parte di una donna cui tiene di essere diventata il risultato delle intenzioni altrui, proprio dopo aver combattuto tutto il tempo per salvare un onore femminile a lei sempre negato e che non ha mai nemmeno pensato potesse appartenerle.
Lady Oscar, un modello per le lettrici contemporanee
Per contemporanee intendiamo sia del periodo in cui uscì il manga di Lady Oscar in Giappone, ormai ben 50 anni fa, sia del periodo attuale. Negli anni Settanta, il manga shojo aveva finalmente iniziato a diffondersi e il suo successo fu dovuto in particolare alle autrici del cosiddetto Gruppo 24 (in riferimento al loro anni di nascita, quasi per tutte il 1949 ovvero l’anno 24 dell’era Showa), tra cui spiccano figure come Keiko Takemiya, Moto Hagio e Riyoko Ikeda.
Queste mangaka rinnovarono il manga per ragazze, approfondendo gli aspetti psicologici dei loro personaggi così belli da sembrare irreali eppure molto umani. Nonostante non ci fosse una vera e propria coesione del gruppo, si può constatare come corpo e mente fossero al centro della narrazione nelle storie disegnate da queste autrici, che si affermarono proprio per la forte spinta che il loro lavoro diede al movimento di emancipazione femminile di quegli anni.
Il manga de Le rose di Versailles fece la sua parte, in realtà, come dicevamo all’inizio, nel mostrarci non solo Lady Oscar e la sua ricerca interiore, ma anche gli struggimenti di altre donne desiderose di liberarsi dal giogo che impediva loro di ottenere una libertà tanto vicina quanto irraggiungibile, di cui la nostra eroina si è poi fatta simbolo impavido. Ecco perché vengono chiamate Rose di Versailles, in quanto tutte ugualmente protagoniste e ognuna identificata con una rosa di colore diverso: Oscar non poteva che essere associata a una rosa bianca, il colore candido che forse fa riferimento alla sua verginità in più sensi (sessuale ma anche emotiva e sentimentale, ancor più delle giovani donne cui si avvicinerà) ma anche al suo cuore immacolato e fedele alla sua Regina; questa, d’altra parte, è riconducibile naturalmente alla rosa rossa, a sottolineare la passione di Maria Antonietta per il Conte di Fersen e il suo carattere dedito al lusso e alle gioie più effimere; esprime invece innocenza la rosa rosa con cui possiamo identificare la dolce Rosalie, che in effetti sarà la prima e unica donna ad amare, in un certo senso, Oscar e a farle mettere in dubbio la possibilità di vivere davvero per sempre come un uomo (“Se fossi realmente uomo, Rosalie…”).
Vi sono altre rose nei giardini di Versailles, ma queste sono sicuramente le più importanti e Lady Oscar riesce a farsi strada fra di loro divenendo co-protagonista (quando in principio era poco più di un personaggio secondario). Questo perché il suo percorso è molto più profondo di quello compiuto da Maria Antonietta, altrettanto osannata e della quale spesso si cerca di ristabilire l’immagine negativa. Tuttavia, dal momento in cui, non senza grande sacrificio e fatica, Oscar lascia le guardie reali e si unisce alla gendarmeria, è come se finalmente fosse rinata, assumendo la sua vera identità, una che ha scelto personalmente nonostante le sia costato tutto.
Ed è così che alla fine Lady Oscar si rende un modello da seguire e di rappresentazione per coloro che non si rispecchiano nel canone della società, smette di voler essere a tutti i costi qualcosa che non è mai stata se non per il volere altrui; ammirevole ancora oggi in quanto riuscita nell’intento di trasformare la “schiavitù” impostale in uno strumento, per dimostrare a chi legge le sue vicende che è possibile deviare dalla strada di un destino scritto per noi da qualcun altro, dalle aspettative che la società ha da sempre e ancora oggi nutre verso le donne, che si tratti della loro femminilità, della loro sessualità o del loro ruolo sociale. Per dimostrare che una rosa non potrà mai essere un lillà e che va benissimo così.