L’equilibrio è un valore fondante della filosofia orientale. Trek to Yomi dovrebbe saperlo, ma se ne dimentica in qualche ora
ella puntata del 23 maggio di Gaming Wildlife abbiamo intavolato una discussione su cosa sia la direzione artistica nei videogiochi. Ve la linko qui e vi consiglio di ascoltarla prima di continuare a leggere, poiché propedeutica per comprendere appieno Trek to Yomi e la critica che ne seguirà.
Il nuovo titolo diretto da Leonard Menchiari, autore del simulatore di rivolte Riot: Civil Unrest e sviluppato da Flying Wild Hog, esattamente al pari della sua palette cromatica, è un mix di intuizioni valide ma anche sbagliate, di momenti stupendi ed altri incomprensibili. Un esempio di in-yō (termine giapponese che indica lo yin-yang, ndr) tutt’altro che equilibrato ma ricco di spunti di riflessione.
Un merito che va indubbiamente riconosciuto a Trek to Yomi è il grande lavoro svolto sotto il profilo visivo a tutto tondo: la già citata palette cromatica, basata sul bianco e nero, ha saputo attirare l’attenzione i pubblico e critica ed invocato paragoni tutto sommato scontati con titoli parzialmente simili. Per esempio è stato invocato Ghost of Tsushima, con il quale condivide l’ambientazione storica del Giappone feudale, ma anche una modalità denominata Kurosawa che, richiamando il celebre regista giapponese, trasforma il gioco in un’esperienza cinematografica d’altri tempi, incluse modifiche audio e non solo, nonostante non sia esente da difetti. Senza scomodare il Sol Levante, è capitato anche di sentire paragoni con le opere di Playdead come Limbo e Inside, nettamente più forzate anche solo per una narrazione che, in Trek to Yomi, lascia poco spazio all’interpretazione. La storia di Hiroki e il suo viaggio di formazione sovrannaturale è infatti spiegata senza lasciare dubbi, così come vengono evidenziate le varie tematiche legate a doppio filo al ruolo di samurai e ai suoi doveri.
Ultima cosa ma non meno importante, è lo stesso Menchiari a dichiarare di essersi ispirato al cinema di Akira Kurosawa e giocando a Trek to Yomi è evidente: ogni scena è studiata a menadito per restituire sensazioni sempre nuove, sfruttando tutti i piani cinematografici a disposizione. Il colpo d’occhio non manca mai e mi ha spinto ad utilizzare più che mai il tasto dedicato agli screenshot, trovando sempre inquadrature evocative e significative. Un risultato impossibile da ottenere solo mettendo un filtro bianco e nero, ma lavorando in modo certosino ad una vera e propria regia, indubbiamente il punto di forza più lampante della produzione.
Se però avete ascoltato il nostro podcast, dovreste anche sapere che non è tutto oro quel che luccica, anzi: una direzione artistica, per definirsi tale, deve tenere in considerazione ogni aspetto dell’opera e trovare un equilibrio tra le varie componenti. E se Trek to Yomi non ha nulla di anomalo nell’impianto visivo tutto, mostra il fianco ad un sistema di combattimento squilibrato, tanto complesso quanto inutile. Sulla carta tutto sembra funzionare: il combat system prevede un sistema di attacchi e parate che permette di dar vita a duelli ricchi di pathos e capaci di farci sentire dei samurai in tutto e per tutto. Il realismo dei combattimenti è palpabile nella misura in cui raramente serviranno più di tre colpi di katana per uccidere un nemico e l’IA fa il suo sporco lavoro per risultare convincente quanto basta. Queste sensazioni reggono abbastanza fino a quando il gioco non comincia a mostrare delle brecce nel suo sistema, dei pattern che ad un certo punto invalidano buona parte dell’esperienza e quei dettagli di gameplay che pure avrebbero ragione di esistere.
Ci sarebbero vari esempi da prendere in considerazione, ma il più lampante è l’enorme lasso di tempo concesso alla parata per essere efficace, talmente ampio che l’ipotesi di picchiettare sul dorsale destro permette in modo fin troppo agevole di parare qualsivoglia attacco (proiettili esclusi). C’è poi il discorso legato alle nuove mosse che Hiroki impara durante il suo viaggio, tecniche che richiedono l’utilizzo dell’attacco leggero e pesante in varie combinazioni. Belle, ma che purtroppo si perdono in una banalizzazione dei combattimenti poiché la loro efficacia è spesso controproducente rispetto al contrattacco, che garantisce un’uccisione quasi sistematica. Ho voluto sperimentare un po’ con il gioco ed ho anche voluto provare i vari livelli di difficoltà proposti, rilevando come l’unico cambiamento derivasse da un danno procurato dai nemici superiore. Va da se che l’opzione più intelligente resta lo spamming forsennato volto alla sopravvivenza, soprattutto nelle parecchie fasi di inferiorità numerica e rendendo la difficoltà tutto sommato poco utile se non per chi desidera esperienze frustranti e plausibilmente monotone.
Può bastare così poco ad affossare un gioco? Ma anche no. Trek to Yomi resta un’opera interessante da giocare, forte di una caratterizzazione solida e ricca di folklore, testimoni i numerosi collezionabili pieni di storia e lo sviluppo affidato a Flying Wild Hog, studio rispettabile e fautore del reboot della storica serie Shadow Warrior che, nonostante il tono nettamente più scanzonato, ha dimostrato una buona conoscenza della storia e miti giapponesi. Ma è soprattutto un esempio quasi scolastico di come sia complesso il lavoro del game design e dell’importanza dell’equilibrio come requisito essenziale per un’opera videoludica, al di là della bellezza evocativa di un trailer e l’insensatezza di un hype esclusivamente visivo.