MADìSON si infila in quella schiera di emuli di P.T. che cercano di recuperarne le suggestioni con qualche idea personale. Purtroppo in questo caso, queste idee funzionano solo a metà
on si può negare che pur nella sua natura di quasi impalpabile, sfuggente, suggestione interattiva, il teaser trailer giocabile di P.T. abbia influenzato molti sviluppatori. E devo dire che da questa ispirazione, talvolta sono usciti ottimi eredi spirituali del titolo mai uscito di Kojima. Uno di questi fu Visage. Oggi, il team argentino Bloodious Games tenta a sua volta di reinterpretare quelle macabre e demoniache atmosfere domestiche con il suo Madison. Tagliamo la testa al toro, il risultato ottenuto non è brillante come il titolo di SadSquare Studio, però non è nemmeno da bocciare. Madison è sostanzialmente un gioco di esplorazione che come detto prende molte delle vibes di P.T. e Visage e condivide con essi anche una certa somiglianza strutturale, aggiungendo alla formula una spruzzata di Fatal Frame. Il protagonista, Luca è un ragazzo che si trova prigioniero nella casa del nonno. A quanto pare questa è legata a presenze paranormali che in qualche modo, per rimanere sul vago, hanno sempre avuto a che fare con la sua famiglia e che allo stesso tempo sono collegate ad una donna di nome Madison, accusata di aver ucciso e mutilato diverse vittime negli anni ’80. In questo sinistro scenario, Luca si trova a nutrire dei dubbi sulla natura e veridicità di quello che gli accade intorno, sospettando di subire l’influenza di un demone.
Gli stilemi della ghost story sono sempre gli stessi, ma l’incipit è sufficientemente attraente per gli amanti del genere, da incuriosire sullo svelamento degli eventi che, come spesso accade in queste produzioni, si raccontano in maniera sibillina e implicita attraverso testi e fenomeni inquietanti dall’ambiguo significato. Partiamo subito con il dire i pregi di Madison: gioca molto con il senso di claustrofobia, le luci, le ombre, e l’aria sinistra, vissuta e vintage dell’abitazione, desolata ma piena di dettagli macabri. La sensazione di essere osservati costantemente, almeno per una buona parte dell’avventura è bella palpabile e ci accompagna mentre muoviamo i nostri passi tra i corridoi, proviamo ad aprire le stanze, ispezioniamo mansarde, cantine, nell’impresa di risolvere tutti i misteri della casa e del suo passato. In termini di gameplay questo si traduce nel trovare una soluzione ad enigmi di diverso genere che fortunatamente sono adeguatamente stimolanti e richiamano alla mente i survival horror classici, come ad esempio Silent Hill o i più riusciti puzzle dei primi Resident Evil.
Trovo che questi siano un po’ out of context generalmente, non troppo coerenti con lo scenario drammatico e pseudo realistico che vuole dipingere il gioco, pur con tutte le giustificazioni ectoplasmatiche del caso, ma è un problema abbastanza comune ai titoli basati sui puzzle e in più a livello ludico quanto meno sono un motivo sufficientemente intrigante per farci scorrazzare da una parte all’altra della casa infestata. Non sono ostacoli che ci fanno perdere troppo tempo o richiedono grandi sforzi, ma allo stesso tempo non si risolvono in maniera eccessivamente automatica e immediata. Meno male dico io, perché, sebbene come ho anticipato, nel complesso ho trovato Madison un gioco tutto sommato piacevole, ha diversi problemi che affliggono il resto della produzione. Innanzitutto c’è un inutile inventario limitato che ci costringe di tanto in tanto a depositare o recuperare oggetti chiave. Non ne vedo il senso in quanto in Resident Evil questo espediente ha un valore ludico non indifferente, visto che spesso tornare al baule è una sfida nella sfida essendoci un level design che costringe a trovare la strada più sicura e costringe talvolta ad affrontare nuovamente minacce lasciate indietro. In Madison non c’è niente di tutto questo, non aggiunge nulla al gameplay la perdita di tempo di ogni tragitto fino alla cassa che custodisce i nostri oggetti. Salvo in 2 singole occasioni, una legata ad una situazione a metà gioco e una proprio alla fine, l’ambiente è sostanzialmente statico e privo di reali pericoli, quindi attraversare gli stessi corridoi più volte non è divertente, di conseguenza il backtracking imposto dall’inventario limitato è semplicemente inutile.
Ma veniamo all’elemento fondamentale su cui si concentra Madison, la macchina fotografica Polaroid. Mi duole dirlo ma proprio nel cuore del gameplay di questo titolo troviamo il potenziale più sprecato. Cominciamo ad analizzare le sue diverse funzioni e a motivare questo disappunto. Innanzitutto la fotocamera banalmente, illumina con il flash il nostro cammino nei luoghi più bui, ma a eccezione di pochissime scene ultra scriptate e legate alla progressione in cui è evidente e suggerito mille volte che va fatta una foto per mostrare qualcosa, questo attimo di luce serve letteralmente solo a vedere dove si mettono i piedi. Non c’è quasi mai una rivelazione sconvolgente e terrificante davanti ai nostri occhi, non c’è mai niente di spaventoso da immortalare. Questo è un grandissimo peccato. Poi certo, torna utile alla risoluzione di molti enigmi ma in questo caso la sua funzione è fin troppo blanda: si fotografa l’oggetto chiave e succede qualcosa. Tra l’altro fatevi un favore e giocate a difficile senza suggerimenti visivi su dove fare le fotografie, quanto meno avrete una minima sfida in più sul capire dove puntare l’obiettivo della fotocamera, altrimenti la Polaroid diventa davvero un trigger meccanico che innesca semplicemente la progressione degli eventi. Attenzione, in un paio di occasioni osservare in maniera trasversale le foto scattate aiuta, ma sono davvero troppo rare.
Non è nemmeno utilizzabile come pseudo arma contro gli spiriti se non in una sequenza brevissima che coinvolge letteralmente gli ultimi 20 minuti di gioco. E veniamo quindi al secondo macro problema, già vagamente toccato: non si rischia mai di morire. Se trovo che l’avventura abbia un buon registro e sfrutti bene gli stilemi del genere per trasmetterti lentamente ma inesorabilmente una certa ansia, presto il giocatore mangia la foglia e scopre che semplicemente non gli può accadere nulla, se non ripeto di nuovo, in 2 brevissime e poco significative occasioni. Cosa comporta questo? Che il lato orrorifico del gioco si riduce a mille jump scare che, una volta compreso che è tutta scena, non fanno nemmeno più paura e anzi diventano in qualche modo pure fastidiosi nel loro essere troppo frequenti e sostanzialmente sempre uguali a se stessi. Mi dispiace perché il setting c’è, e c’è anche un certo mestiere nel creare la giusta atmosfera, e gli enigmi non sono né troppo difficili né troppo facili, occupando quella giusta via di mezzo che dona il piglio adeguato ad un’avventura che vuole essere concisa ed emozionante.
Purtroppo però Madison soffre di troppi limiti: troppi assets ripetuti che rompono l’immedesimazione con lo scenario (non so quanti quadri con lo stesso soggetto ci sono in giro per casa), poltergeist, eventi paranormali, troppo scarsi e concentrati tutti verso la fine; un senso dell’orrore nell’esperienza troppo prestabilito e passivo, poco legato all’interazione del giocatore, fatto di jump scare la cui efficacia cola a picco dopo un paio d’ore. Nessun senso di reale pericolo per troppo tempo. Il fulcro del gameplay, ovvero l’uso della macchina fotografica, che poteva essere una cosa veramente figa, è sfruttato molto poco e in maniera semplicistica. Sorvolo sui problemini tecnici, sull’interfaccia minimalista e non pulitissima e su tutte quelle cose più che giustificate, quando non vanno ad intaccare troppo l’esperienza, perché mi rendo conto che parliamo di un prodotto low budget indie.
Ma lo era anche Visage, aveva questi problemi eppure riusciva a spiccare maggiormente nei suoi meriti, e se in Visage la dinamica della luce era un aspetto intrinsecamente legato realmente ad elementi survival e alle minacce sullo schermo, la fotocamera di Madison si rivela troppe volte un semplice “promp” super suggerito dal level design per proseguire nell’avventura e una gimmick dalle infinite potenzialità poco esplorate. Perdonatemi il continuo paragone tra i due titoli, che non faccio tanto per affossare un titolo come Madison che comunque, al di là della mia analisi risulta un’esperienza generalmente più che sufficiente, che merita di essere fruita da chi ama questo genere, ma per far capire che con questo concept e con queste risorse, si può aspirare a qualcosa di più curato e coinvolgente. Madison è un gioco che ha buone idee, buone basi, una componente puzzle non rivoluzionaria ma tutto sommato divertente. Ma è anche un gioco che proprio dove poteva spiccare per i suoi elementi unici, risulta rinunciatario, andando con un effetto a catena ad influire negativamente su altri aspetti che lo rendono infine un titolo discreto ma niente più. A scanso di fraintendimenti mettiamola così, se le avventure horror dal ritmo compassato, basate sulle atmosfere e non sull’azione, sono il vostro pane quotidiano e avete già giocato tutto il meglio del genere, Madison è assolutamente degno delle vostre attenzioni e merita di essere giocato. Negli altri casi semplicemente, forse non è esattamente la prima scelta ideale. Tutto qui.