Buzz Lightyear dopo Toy Story: uno space ranger che deve riscoprirsi
el momento in cui è redatto questo articolo, Lightyear – La vera storia di Buzz in Italia segna un incasso di poco superiore ai due milioni di euro. Difficile possa fare molto altro, a un mese dall’inizio dello sfruttamento in sala e con l’imminente arrivo sulla piattaforma streaming di Disney+. Una situazione che rispecchia in parte l’andazzo avuto dal film in tutto il mondo, con un botteghino che anche qui supera di non molto i duecento milioni di dollari. Restano fuori dal conteggio due colossi come Cina e Russia, dove il film non è passato, ma rimane comunque indicativo la maniera in cui abbia sottoperformato un film dal quale ci si attendeva decisamente di più.
Mettici che è il primo film a marchio Pixar a tornare con una release cinematografica da, in sostanza, più di due anni, quando nell’agosto del turbolento 2020 arrivò nei cinema Onward. Poi un filotto di distribuzioni in esclusiva digitale con Soul, Luca (quello sì che avrebbe incassato moltissimo da noi) e Red, con strategie di pubblicazione anche abbastanza incomprensibili se non a fronte della volontà di caricare di contenuto esclusivo proprio il catalogo di Disney+. Mettici che quando nomini Buzz stai nominando indirettamente tutta la tradizione di Toy Story, con un portato storico e artistico in grado di fare eco nella testa e nel cuore di grandi e piccini.
Però qualcosa in Lightyear – La vera storia di Buzz non ha funzionato. Il minimo chiacchiericcio e un passaparola quasi inesistente si affiancano a una ricezione piuttosto tiepida da parte della critica. Non ha fatto breccia il primo, vero film di fantascienza di casa Pixar, che con un gioco di prestigio dei suoi crea un’opera con un’impalcatura che gioca con il giocattolo, che si mette in dialogo tra il medium e i risultati di quel medium. Lo fa in maniera praticamente retroattiva. Lightyear – La vera storia di Buzz si apre cosi: «In 1995, Andy got a toy from his favorite movie… this is that movie.» Una finezza.
Certo, una finezza anche estremamente furba nell’ottica di trovare uno spazio di sfruttamento all’interno delle maglie di un brand da approcciare in maniera collaterale, attraverso quegli echi di cui dicevamo prima. Ma resta una finezza, artistica e produttiva, che parte da un assunto tanto semplice quanto esemplare: se esiste un giocattolo così iconico, esiste anche un qualcosa dal quale quel giocattolo deriva. E cosa meglio di un film, con quel potere immaginifico in grado di radicare sogno e desiderio all’interno di un bambino.
La vera spinta propulsiva è fare tutto questo con Buzz, un personaggio dalla forte componente individualista e tanto legato al celebre motto «Verso l’infinito e oltre!», rovesciato da dentro a fuori e messo di fronte al più grande insegnamento possibile per un essere umano: l’accettazione della finitezza.
Una vertigine che Lightyear – La vera storia di Buzz condensa in maniera perfetta nei suoi primi venti minuti. Deciso a salvare tutto da sé la colonia che a causa di un suo errore è rimasta bloccata su un pianeta inospitale, lo space ranger Buzz effettua dei voli di collaudo attorno alla stella di quel sistema che finiscono per costargli tutto. Al cinema ce lo ha insegnato bene Interstellar, nello spazio il tempo è un concetto estremamente relativo. Dei minuti qui, sono anni lì. E così ogni volta che torna alla base, Buzz rimane giovane, aitante, testardo, mentre tutto intorno a sé muta, la colonia cresce, le persone a cui tiene prima invecchiano e poi, inevitabilmente, muoiono.
Questa prima porzione di film è tanto lucida da farsi straziante, una delle opening Pixar più di impatto di sempre e che potrebbe funzionare da corto a sé stante talmente è efficace il modo in cui racconta ciò su cui sta andando a lavorare. Ad un’apertura così incredibile fa fronte però la consapevolezza che lo sviluppo dell’assunto di partenza non sia mai realmente pungente quanto la maniera in cui viene inizialmente proposto.
Se da una parte Lightyear – La vera storia di Buzz mantiene altissimo uno standard qualitativo che è pura gioia per gli occhi e per tutti gli amanti del sci-fi di impianto realistico, dall’altra non funzionano mai davvero certi compagni di avventura dal dubbio carisma (a eccezione del gatto Sox) che eppure sono il cuore, la parte fondativa del percorso a cui è chiamato Buzz.
La grande anima del film, che rischia di perdersi in un ritmo che non lo aiuta troppo, eppure è di quelle d’alto profilo: l’abbandono della retorica dell’individuo, maschio, virile, solo di fronte al baratro e col peso del mondo sulle spalle dove il grande avversario da fronteggiare è l’immagine che si ha di se stessi e le aspettative alle quali si pensa essere chiamata questa immagine.
Un film impossibile – perché impossibile sarebbe stato nel 1995 vedere un bacio gay in un’opera d’animazione, per di più dal leader della squadra donna e nera, but it’s cinema baby – che spazza via con un colpo di mano l’ossessione a ogni costo, innalza la collettività e la condivisione a favore dell’hic et nunc in un periodo d’incertezza cosmica tra l’imperante fisica quantistica e il dilagare dell’abisso dei multiversi.
Forse il modesto ritorno al botteghino è anche figlio di un target un po’ troppo a cavallo di due mondi, con i fan storici di Toy Story ora cresciutelli che in Lightyear – La vera storia di Buzz trovano poco più di uno scampolo di ricordo, mentre alle nuove generazioni è riservato un racconto che sottolinea il cambio di passo e sul quale potrebbero essere accompagnati a riflettere. Chissà che il passaggio su Disney+ non possa donare una seconda vita a un film magari non fulminante, ma con una profondità che varrebbe la pena indagare ancora.