La serie TV The Terminal List, approdata in Italia su Prime Video, è stata distrutta dalla critica (in particolare quella americana), ma ha ottenuto un eccezionale gradimento da parte del pubblico. Chi ha ragione?
a un po’ di tempo è presente tra le novità nel catalogo di Prime Video la serie The Terminal List, diretta dall’onnipresente Antoine Fuqua.
Onnipresente perché, di recente, è sempre in mezzo come il prezzemolo, sebbene il più delle volte ciò sia un bene. Per gran parte della critica – in particolare quella americana – però, non in questa occasione.
Lo show è stato letteralmente massacrato, al punto che anche l’autore del romanzo da cui è tratta la serie, l’ex Navy Seal Jack Carr, si è esposto per difendere Fuqua e soci.
Carr ha sottolineato infatti come in realtà circa il 95% degli spettatori si è ritenuto ampiamente soddisfatto dalla serie, e nel nostro piccolo ne abbiamo una prova osservando i commenti entusiasti sulle pagine social italiane di The Terminal List, che pare ricevere appunto solo giudizi positivi da parte dell’utenza.
Eppure dalle parole di Carr (che è anche produttore esecutivo), sembra quasi che la serie abbia un target specifico.
“Non l’abbiamo fatto per i critici”, sostiene l’autore. “L’abbiamo fatto per chi è nell’arena. L’abbiamo fatto per i soldati, i marinai, gli aviatori e i marine che sono andati in Iraq e in Afghanistan, in modo che potessero sedersi sul divano e dire: ‘Ehi, questi ragazzi si sono impegnati. Si sono impegnati per realizzare qualcosa di speciale e uno spettacolo che parlasse a noi’.”
Ciò che forse dimentica Carr, però, è che un medium come una serie TV non dovrebbe essere così settoriale ma puntare a un pubblico eterogeneo, e oltretutto il critico stesso è comunque uno spettatore.
La sua è certamente una provocazione, ma a volte si farebbe meglio ad accettare le critiche o quantomeno riflettere di più sulle risposte (la vicenda Russo Bros insegna, n.d.R.). Anche in casi come questo, per il quale in effetti ritengo che le critiche siano state eccessive.
Senza dubbio Carr, da ex “addetto ai lavori” conosce bene l’ambiente che il libro e la serie raccontano, ed il modo in cui si sviluppano le dinamiche di guerra, spionaggio e strategie funzionano abbastanza bene, nonostante ci tornano alla mente le parole di Carr sulla serie pensata per chi è nell’arena, dato che a volte alcuni passaggi potrebbero sembrare un po’ complessi e non decifrabili da tutti.
Per chi ancora non l’ha vista, The Terminal List è incentrata sulla storia del comandante dei Navy SEAL James Reece (Chris Pratt), che insieme al suo plotone finisce vittima di un’imboscata durante una missione segreta con lo scopo di eliminare un pericoloso terrorista. Il gruppo viene quasi completamente ucciso, salvo il capitano Reece e un compagno d’armi, ma al ritorno negli Stati Uniti l’uomo capisce che qualcosa non torna e inizia a pensare che dietro quella missione suicida ci fosse un misterioso complotto.
La sensazione che si ha durante la visione di 8 lunghissime puntate, che non sempre procedono fluidamente, è quella di assistere ad un film annacquato per permettergli di diventare una serie. Le dinamiche sono le solite, routinarie di un qualsiasi prodotto action thriller con queste tematiche, in cui la vendetta di shooteriana memoria ne costituisce il nucleo.
C’è davvero poco che va fuori dagli schemi, tutto è molto telefonato e lineare e se con la scena finale si pensava di regalare un plot twist, beh, siamo davvero lontani. Personalmente mi è sembrato tutto piuttosto evidente sin dalla prima puntata, ed anzi la speranza di sbagliarmi si è rivelata vana.
E allora, ha davvero ragione la critica che ci è andata giù pensate con questa serie TV? Non proprio. Bisogna ricordare che si tratta di un prodotto votato esclusivamente all’intrattenimento, a fare un po’ di “casino” e giocare con gli spettatori. Del resto basta conoscere la filmografia di Fuqua per non aspettarsi chissà quale tipo di introspezione. Chris Pratt sembra ormai a suo agio in ruoli in cui deve imbracciare il fucile e stavolta mette anche da parte l’ironia per un ruolo totalmente cupo.
Detto ciò, dopo un inizio spumeggiante dobbiamo ammettere che il ritmo tende a calare, e alcuni episodi centrali sembrano atti esclusivamente ad allungare il brodo, come dicevano prima. Credo che se avessero scelto di condensare l’opera in uno script più breve, non necessariamente un film ma magari una miniserie in 4 puntate, anche Carr non avrebbe avuto modo di lamentarsi troppo del punteggio.
Quindi no, The Terminal List non è davvero così brutto come sostengono alcuni, ma non è certo un prodotto di cui sentivamo tutta questa necessità.