Dovunque e in ogni cosa: quante cose sa fare il washi!
i trovate in una stanza tradizionale giapponese e vi guardate intorno. Osservate il curatissimo tatami ai vostri piedi, il tavolino basso su cui campeggiano the e dolci tradizionali – magari fatti in casa – fate passare lo sguardo sui fusuma da cui siete entrati e lo rimbalzate sugli shoji che danno sul giardino esterno. Dopo aver ammirato il kakemono appeso nel tokonoma, decidete di accendere una lampada tradizionale e sedervi per gustarvi la vostra meritata merenda. Quello di cui, forse, non vi siete accorti è che molti degli oggetti e decorazioni presenti in quella stanza sono stati creato con della carta, e non una carta qualunque: bensì washi, ovvero la carta tradizionale giapponese.
Questo tipo di carta incredibilmente variegato nei suoi utilizzi è presente in innumerevoli aspetti della vita tradizionale giapponese, tanto da esserne diventato indissolubile. Dalla pittura alla poesia, passando per la religione, la filosofia, arrendamento e vita di tutti i giorni: la carta washi vi stupirà con le sue qualità!
La giapponesizzazione della carta
La carta nasce per la prima volta in Cina nel 105 d.C. – una menzione d’onore al papiro egiziano – quando il cortigiano Tsai Lun inventò lo storico metodo di fabbricazione che si diffuse a macchia d’olio nel mondo, dando inizio al passaggio da tradizione orale a scritta. In Italia fu Marco Polo a parlare di questa scoperta nel suo libro “Il Milione”. Per il Giappone, invece, la leggenda narra di un monaco Buddhista coreano, Dam Jing, che intorno al 610 d.C. portò nel paese del Sol Levante il prezioso metodo di fabbricazione. Da lì, i giapponesi fecero quello che gli riesce meglio: assimilare, migliorare e rendere proprio. In che modo, precisamente, la carta divenne ufficialmente washi? Attraverso diversi materiali e metodi di produzione. Nonostante venga comunemente chiamata “carta di riso”, i tre materiali più famosi per la creazione di washi sono il kozo (gelso), il mitsumata e il gampi – ovvero piante e alberi che si trovano sul suolo giapponese. Venne prodotto washi a partire da innumerevoli altri materiali, ma questi tre diventarono famosi e molto utilizzati per le loro proprietà: il kozo era visto come maschile e robusto, l’albero di mitsumata come femminile, delicato e morbido; il gampi, invece, come nobile, ricco e longevo.
La carta washi divenne famosa per la sua resistenza, dal momento che le fibre non venivano triturate ma piuttosto pestate e tirate, mantenendone la struttura. Con il metodo nagashizuki, che immergeva il setaccio più volte nella mistura di acqua e fibre, ci si assicurava anche un prodotto finale ben stratificato e flessibile. La debolezza all’acqua viene notevolmente ridimensionata, tant’è che diverse volte nel corso della storia grosse quantità di documenti sono state salvate dalle fiamme di alcuni incendi gettando i libri nei pozzi. A crisi rientrata, i volumi mantenevano ancora un inchiostro perfettamente leggibile e potevano continuare ad essere utilizzati. Proprio con l’acqua la carta washi ha un rapporto a doppio filo: non solo le resiste egregiamente, ma ne ha anche bisogno per essere creata. Per la creazione serviva acqua fredda e purissima, reperibile solitamente nelle zone montuose. Ecco perché, nonostante il suo pregio possa indurre a pensare che venisse prodotta vicino alle corti, magari da qualche nobile artigiano, in realtà la produzione di carta washi veniva affidata alle comunità contadine, che ci lavoravano nei lunghi e gelidi mesi invernali. Ancora oggi esistono cittadine rurali famose per la produzione di questa carta, come Tokushima e Toyama.
L’arte tradizionale giapponese e il washi: culo e camicia inseparabili
Da studentessa di lingua e cultura giapponese, una delle primissime cose che mi vengono in mente quando si parla di storia dell’arte sono gli infiniti paraventi e porte scorrevoli decorate che adornano i castelli e i templi giapponesi. Sia i fusuma, gli shoji che i byōbu spesso presentano alcune tra le opere d’arte più iconiche della tradizione storica giapponese – e tutto questo lo si deve proprio alla carta washi. Nonostante la sua sottigliezza, il materiale non si danneggia nemmeno se decorato con strati di inchiostro, oli o altri tipi di pitture. Uno dei miei preferiti è il paravento decorato da Ōgata Kōrin e intitolato “Susino con fiori bianchi e rossi”, ma in generale la natura era uno – se non IL – soggetto per eccellenza in questo tipo di forma d’arte.
Sempre parlando di pitture abbiamo anche i kakemono, ovvero dipinti o calligrafie giapponesi da appendere. Nonostante sia un rotolo come l’emakimono, al contrario di esso si apre verticalmente. Questo tipo di dipinti viene spesso realizzato su seta, ma la carta washi è un altro materiale largamente utilizzato. Anche altre forme d’arte dipinta tradizionali giapponesi utilizzano la carta washi, due fra tutte le stampe e le xilografie – come l’ukiyo-e, di cui avrete sicuramente sentito parlare. Oltre alla calligrafia come forma d’arte (shodo), la carta washi ha aiutato alla diffusione di testi religiosi (specialmente buddhisti), nonché alla nascita e popolarizzazione della letteratura giapponese. Raccolte di poesie waka, racconti, miti e tradizioni compongono ciò che principalmente era relegato alla sola tradizione orale. La carta washi è presente in innumerevoli aspetti della religione autoctona giapponese, ovvero lo shintoismo: strisce fluttuanti poste in corrispondenza di luoghi santi o per allontanare gli spiriti maligni (shime), i talismani protettivi ofuda, oppure ancora gli origami.
Origami è una parola composta da due kanji, 折り紙, dove il primo significa “piegare” e il secondo “carta”, ma dal momento che ha la stessa pronuncia della parola 神, ovvero “dio”, ecco che questi oggetti assunsero una valenza sacrale, fungendo da ponte per creare un contatto tra divinità e uomini. Forse vi sarà capitato di vedere, in alcuni anime, la versione più famosa e conosciuta degli origami, ovvero la gru (orizuru). Oltre ad essere un simbolo di longevità e buon auspicio, la leggenda vuole che realizzando mille origami a forma di gru si possa esprimere un desiderio alle divinità.
Carta washi: costruisce intorno a te
Grazie alla sua duttilità, la carta washi viene impiegata in virtualmente qualsiasi ambito. Da quelli più tradizionali e interessanti, come l’ikebana – l’arte floreale giapponese – o la produzione di aquiloni e lanterne (ad esempio le chouchin), a quelli più pratici come mobili, piatti, ventagli, kimono, geta, ombrelli e cesti, e finendo con quelli più impensabili, come l’elettronica. Perché sì, i giapponesi hanno utilizzato la carta washi anche per creare elettrodomestici. Ad oggi, questo materiale incredibilmente versatile e nominato patrimonio orale e immateriale dell’umanità nel 2014 dall’UNESCO è conosciuto in occidente perlopiù per il washi tape. Questi rotoli di nastri adesivi di carta colorati vengono utilizzati da chiunque, dai designer di alta moda a chi ama fare scrapbooking.
Dopo aver fatto un breve excursus su molte delle applicazioni e usi della carta washi, mi sembrava simpatico concludere con una piccola pillola di linguistica. Il carattere “wa” della parola washi vuole sì dire “Giappone”, “giapponese”, etc – solidificando il significato di “carta giapponese”, ma vuole anche dire “andare d’accordo” o “fondersi bene”. Sia in passato che oggi la carta washi è rinata, unendosi a forme d’arte e artigianato sempre diverse e creando sempre cose nuove. È quasi come se la carta washi ci stesse inviando un messaggio di armonia, non trovate?