Durante la Gamescom 2022, abbiamo parlato con numerose sviluppatrici ed editori Indie, riscontrando una curiosa convergenza di temi
e polemiche che caratterizzano le fiere di settore sono spesso non solo dovute, ma anche indice della salute dello stesso: meno ce n’è, meno forza contrattuale detiene la stampa rispetto all’industria. Uno dei contributi che le penne di Stay Nerd hanno sempre dato a questo dibattito è relativo al rilievo dell’incontro “dal vivo” con chi crea: parlare con sviluppatrici, editori e figure del settore è fondamentale, sia per creare quell’insieme di competenze necessarie per capirne qualcosa, sia perché solo così chi fa critica e/o giornalismo può fare domande abbastanza… “scomode“. Purtroppo, spesso in questi eventi il rapporto con le parti più forti, dal punto di vista economico, è filtrato da dinamiche commerciali e comunicative molto ingessate. Al contrario, nella scena Indie, al di là delle mille sfumature che essa oggi assume, è possibile trovare proprio quell’incontro tra critica, sviluppo e industria che permette di triangolare riflessioni complesse sul settore.
La Colonia che la redazione di Stay Nerd ha vissuto è stata, da questo punto di vista, molto ricca. In primis perché durante la fiera abbiamo incontrato rappresentanti della scena Indie italiana, come il team di Yonder, in procinto di pubblicare il loro nuovo gioco. Scoprire, conoscere, discutere e dibattere dei problemi che uno sviluppatore incontra è sempre non solo fondamentale, ma anche interessante, così come capire quale sia il giudizio di chi crea rispetto alla stampa e alla critica, o su fenomeni come l’influencer e altre forme di collaborazione aziendale. Quel che è accaduto con loro si è riprodotto in forma più o meno identica con altri team e altre nazionalità. Per esempio, ho discusso con Florent Maurin, creatore e produttore dell’Indie Bury me, My Love, partendo dalla prova del suo nuovo gioco, The Wreck, e finendo per lamentarmi, caldamente accompagnato dal suo annuire, della difficoltà di diffondere il concetto di meccanica funzionale al messaggio, e non a quello astruso e incomprensibile di divertimento.
Da lì ho poi parlato con il team di The Last Worker, interessantissimo progetto in arrivo anche su Game Pass, che narra dell’ultimo lavoratore sulla Terra, e del suo rapporto con l’automazione. Dopo la prova, la discussione si è però incentrata sull’importanza per il mondo Indie di comunicare i loro giochi con i paragoni: avete presente quel “è un po’ come Doom che incontra Lovecraft”, o “è un soulslike ma con i colori”? Ecco, per quanto sia svilente come metodo d’analisi e povera come espressione comunicativa, secondo gli sviluppatori è purtroppo un fondamentale strumento di formazione di un pubblico, che tende a spostarsi a seconda di alcune “parole d’ordine” all’interno delle loro nicchie. Nel salutarli, ho detto: “quindi non vi arrabbiate se descrivo il vostro gioco come Stanley Parable, ma sul capitalismo?”, e loro, ridendo, mi hanno risposto che “forse è meglio Firewatch ma su Amazon”. Efficace, vero?
Una scena esilarante è stata poi quella che ho vissuto parlando con uno dei dev (vi prego perdonatemi se non ricordo il nome) di One Last Breath, titolo dell’Indie Booth Arena che ha vinto il premio di miglior titolo di quest’edizione. Avevo già provato la demo (che trovate ancora online) durante lo Steam Fest, e… diciamo che aveva un bel po’ di problemi tecnici, oltre che contenutistici. Il gioco narra infatti di un’incarnazione della natura che prova a salvare la Terra dai terribili problemi che il genere umano ha causato: dalla demo, sembra che il problema non sia il sistema economico che ci spinge a sovrapprodurre e sovraconsumare, ma il nostro stesso esistere. La solita storia de “il virus siamo noi”, insomma. In virtù di tutto questo, passo davanti al loro piccolo stand e chiedo, con scarse speranze, se la demo presente è la stessa dello Steam Fest.
Il dev mi guarda con gli occhi lucidi e mi dice, in totale onestà: “sì! Ma, ti prego, rigioca. Adesso abbiamo i soldi”. Io scoppio in una fragorosa risata, e gli chiedo cosa intende. Mi risponde che “adesso che abbiamo trovato un publisher e dei fondi, in questi mesi abbiamo quasi solo ripulito ciò che già avevamo, perché il nostro problema era la fluidità di tutto”. Effettivamente, il gioco mi è immediatamente sembrato giocabile (cosa che la demo quasi non era), ma… il problema contenutistico rimaneva. Da pavido critico quale sono, ho aggirato il problema ponendolo come un appunto, una speranza! “Sai, spero non sia quel gioco dove il problema è il genere umano, perché personalmente ho raggiunto il limite. Io penso sia più una questione di distribuzione di risorse, ecco”. I suoi occhi si illuminano di nuovo: “beh, sì, è esattamente quello che voglio dire col gioco. Nella demo non si vede, ma più avanti invece ci sono puzzle dove devi far cooperare tecnologia e natura, e con questo volevo cercare di dire che la tecnologia non è un male, è come la usiamo a rappresentare il problema”.
Da lì, la discussione si è quindi spostata sull’importanza della demo, e su quanto sia difficile ideare questo mini-prodotto, fondamentale nel mondo Indie (perché aggiungere in wishlist su Steam cambia persino il potere contrattuale del dev con il publisher), ideale per parlare con più pubblici appassionati e, purtroppo, spesso orizzontali (ciò consumatori di pochi generi o tipologie di giochi). Lì accanto c’era poi l’editore di The Longing, col quale ho discusso del perché un editore sceglie di puntare su un gioco così poco… sicuro, da un punto di vista economico. Ero da quelle parti perché stavo provando We Stay Behind, un gioco dove impersoniamo una giornalista che interroga coloro che hanno deciso di rimanere in una zona della Terra colpita da un meteorite: per citare quanto scritto prima, “Firewatch che incontra Lake”. Dopo qualche domanda sul gioco, dove discutevamo dell’oramai già piena nicchia dei “walking sim”, abbiamo appunto parlato dei rischi che un editore Indie può prendersi, in virtù dei minori costi ma, al contempo, del sottilissimo confine che divide il sopravvivere e il fallire.
Parlando con uno dei membri di Application Systems Heidelberg, fondato nel 1985 ed editore di The Longing, We Stay Behind e moltissimi altri titoli, è emerso come effettivamente il problema (vantaggio?) principale del mondo Indie sia quello di non poter gestire tutto nel modo iper-sicuro e privo di rischi (e creatività) del Tripla A, e si trova a dover rischiare un po’ per poter ottenere qualcosa che ti permetta di non dover ragionare di anno in anno. Con The Longing è andata bene ma, esempio dello stesso editore, con Where the Water Tastes Like Wine no. Ed è così che è emerso quanto secondo loro sia importante la copertura giornalistica e critica del mondo Indie, che in questa parte del settore può ancora svolgere la funzione che un tempo, prima dell’era dei “creatori di contenuti”, spettava a quest’ambito professionale.
Sono rimasto a volte stordito dall’inattesa, massiccia presenza del gergo “da public relation” nel padiglione Indie, segno ulteriore della sempre più evidente incursione del mondo “corporate” in questo mondo. Accanto al piccolo stand di (It) doesn’t exist, dove l’unica sviluppatrice presente (di due totali) si faceva sostituire nelle pause pranzo dalla sorella, c’erano i giochi di ARTE, un editore direttamente connesso allo stato francese (e dove infatti ho parlato quasi esclusivamente con produttori e responsabili della comunicazione). Questa commistione di indie, premium indie e Tripla I (se le inventano tutte eh) crea dei problemi non banali anche a coloro che “usano” l’etichetta per ritagliarsi una certa visibilità, da quel che mi è stato detto da più persone. Infatti, se in realtà il tuo budget e le tue ambizioni commerciali sono ben diverse da quelle dell’Indie “vero” (concedetemelo), trovarsi in un padiglione dove stampa e influencer non passano quasi mai (perché costretti a condividere gli angusti spazi aperti al pubblico, al contrario della business area) ti permette di connetterti per davvero con poche decine o centinaia di persone, quasi irrilevanti per certe realtà e invece vitali per chi, per esempio, non ha la possibilità di accedere a componenti fondamentali di progetti simili, come beta testing o indagini di mercato particolarmente complesse.
Ho parlato poi con alcuni membri di Rusty Lake, di Ustwo e di tantissimi altri team, piccoli, medi e, anche se nel padiglione Indie, “grandicelli”. Ho sentito tutto e il contrario di tutto, sia su cosa significhi sviluppare, produrre, distribuire e creare, sia su cosa sia il videogioco, su come esso possa essere comunicato e, soprattutto, sui pregi e limiti di questo settore. C’è però una cosa che mi sembra rilevante, in quanto condivisa da tutti: parlando espressamente con chi sviluppa, è emerso chiaramente che tantissimi dei giochi Indie presenti alla Gamescom abbiano in qualche modo a che fare con la quarantena, la pandemia, la reclusione, limiti imposti e autoimposti alla psiche e al corpo. Più un gioco ha chiesto meno tempo per essere sviluppato ( come nel caso di (It) doesn’t exist), più questa presenza era evidente e chiara: pensa un po’, il videogioco, essendo un mezzo comunicativo, può permetterci anche di parlare di ciò che sentiamo.
Il dato temporale non è irrilevante: ho spesso letto che rispetto ad altri media il videogioco non è capace di parlare del contemporaneo perché richiede troppo tempo per essere prodotto, e che ha spesso declina su grandi temi esistenziali o tradizionali. Tutto questo è vero solo se nel mezzo videoludico includiamo esclusivamente le grandi produzioni, e non progetti che invece in pochi mesi sono capaci di esprimere sensazioni umane e connesse al vissuto recente, sia in senso storico che individuale. E in effetti, più il budget (secondo il mio sguardo) aumentava, e più percepivo un distanziarsi da questo filo rosso che connette molte delle produzioni Indie della fiera. La convergenza sul piano fisico di questi diversi tipi di indie ha paradossalmente fatto esplodere in modo più evidente le contraddizioni, i contrasti di questo settore-nel-settore, dandomi numerosi spunti su come immaginare un modo diverso di comunicarli. Anche quest’anno, ne è valsa la pena.