“Il colibrì non è un uccello come gli altri: Se gli impedisci di battere le ali, lui muore in meno di dieci secondi. Questo non è un uccello, questo è una specie di miracolo”

colibrì

arco non lo sa. Forse è una conoscenza innata, forse glielo è stato detto una volta che ha ottenuto questo soprannome da piccolo, ma di fatto lui prova a volare via, prova a muoversi, vorrebbe smettere di battere le ali, manifestazione di questa traumatica vita, ma non riesce.

Marco Carrera è un dottore, ha pochi affetti al suo fianco, ma gli bastano. Ha sofferto, ma è sempre andato avanti. Ha un fratello, una moglie, un amore, una figlia, una nipote, due genitori anziani, qualche amico vero e se stesso. Marco è un colibrì, hanno provato a cambiarlo negli anni, ma lo è sempre stato e lo sarà per sempre.

Il Colibrì, film di Francesca Archibugi che apre la Festa del Cinema di Roma 2022, è uno spaccato di vita che ci porta a vedere i lati più estremi delle relazioni umane. Una quotidianità ferita che prova a nascondere le inimicizie, le passioni, i disturbi, sotto il tappeto del salotto. Nessuno si guarda realmente negli occhi, nessuno ascolta l’urlo straziante di Irene, i desideri di Luisa o il coraggio di Adele. Solo Marco ci prova. Quel Marco che, nonostante le sfortune, le ostilità, le impervie questioni che affliggono lo spirito umano nella sua totalità, non ha mai smesso di battere le sue ali da colibrì. Lui che ha sempre dato sé stesso senza guardare indietro, che ha amato le donne della sua vita con la sincerità che meritavano e la purezza necessaria.
Marco Carrera lo si potrebbe definire come un naufrago alla deriva della marea. Un errante del mare alla stregua delle onde, ma lui, il suo viaggio, l’ha deciso. Non ha scelto una meta, a lui non interessava, non voleva orpelli e vizi, non voleva fregiarsi di titoli e lustri, a lui bastava essere se stesso, nella sua semplicità, nella sua onestà.

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Marco vola e resta fermo. Marco non spezza il filo invisibile che lo lega alla figlia Adele. Marco non recide il legame che lo porta a Parigi. Marco sbatte le sue ali, ma non fa rumore. Non urla, non si arrabbia, avanza lentamente. C’è solo un punto di rottura, uno che nessuno vede, che nessuno sente, un momento che Marco Carrera deve affrontare da solo, proprio lui che è sempre stato al fianco di chi ne aveva realmente bisogno.

L’opera che nasce dall’omonimo libro di Sandro Veronesi, Premio Strega del 2020, è una trasposizione pura, ma soffre del nichilistico déjà-vu che ormai affolla le menti degli spettatori italiani più navigati. Quanti film della medio-alta borghesia italiana abbiamo visto? Film dove la ricchezza, l’agio e la bellezza dei propri attici, delle proprie case in centro, delle proprie ville al mare, nascondono le fragilità di un nucleo familiare sempre più frammentato. Abbiamo necessità, ancora, di queste opere?

Il colibrì è un film perfetto per arrivare al cuore della critica, ma non all’animo dello spettatore

Marco è una mosca bianca, non è solo un colibrì. È una figura che, volente o nolente, non possiamo attaccare. Non ha colpe oltre quella di essere rimasto sé stesso davanti ogni tragedia. Un uomo che ha cancellato il dolore riversando amore verso gli altri. Un uomo che ci dona empatia, ma che non riesce a salvare una narrazione stantia, ripetitiva e già vista. Le transizioni di camera, nelle riprese degli interni, che alternano i piani temporali, sono un tocco di stile dell’Archibugi, ma il comparto artistico rimane lo stesso, costantemente.

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Il colibrì non è una novità. È un film perfetto per aprire una manifestazione come la Festa del Cinema di Roma. Una produzione bellamente confezionata, con fiocchi e pacchi, ma incapace di farci strabuzzare gli occhi una volta rotta la carta che lo avvolge. Un film “radical chic” da salotto che non ci dona nient’altro che un grande Favino, una fortissima Fotinì Peluso e una speranza nuova sulle nuove generazioni di attori italiani.

Il Colibrì vola, resta fermo, ma vola. Sbatte le sue ali, ci osserva da dietro lo schermo, continua a volare portando con sé questo filo che lega anime, cuori, ricordi, frammenti ed emozioni. Vola e lega i protagonisti, incapaci di mostrarsi per quello che sono realmente, inghiottiti dalle proprie fragilità. Il colibrì vola, ci guarda, si ferma. Muore.

Leonardo Diofebo
Classe '95, nato a Roma dove si laurea in scienze della comunicazione. Cresciuto tra le pellicole di Tim Burton e Martin Scorsese, passa la vita recensendo serie TV e film, sia sul web che dietro un microfono. Dopo la magistrale in giornalismo proverà a evocare un Grande Antico per incontrare uno dei suoi idoli: H. P. Lovecraft.