Facciamo un salto nel mondo cinematografico del pallone, con un cult della comicità italiana
ell’ottobre del 1984 arrivava nelle sale L’Allenatore nel Pallone, un film che ha segnato più di una generazione di appassionati del mondo del calcio e, contestualmente, del cinema. Siamo nell’epoca d’oro della commedia all’italiana, che racconta di un’Italia completamente diversa a quella attuale. C’era una nazione economicamente piuttosto forte e che aveva voglia di divertimento e spensieratezza, come si può notare dalla maggior parte delle commedie ambientate tra gli anni ’80 e l’inizio dei ’90: superficiali e con la maggior parte delle battute invecchiata decisamente male, ma allegre e piene di vita, che raccontano un paese in cui tutto sommato si viveva piuttosto bene.
Anche nel calcio l’Italia la faceva da padrona. L’Italia è campione del mondo in carica, la Juventus ha vinto la Coppa delle Coppe e avrebbe vinto di lì a poco la Coppa dei Campioni in finale contro il Liverpool. La Serie A italiana era ancora il campionato più bello del mondo e stavamo per assistere all’incredibile scudetto del Verona, altro segno che, a costo di ripetermi, eravamo in un’epoca in cui i miracoli erano davvero possibili.
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In questo contesto, il tridente formato dai protagonisti principali, Lino Banfi, Gigi Sammarchi e Andrea Roncato, era in grado di far sognare gli amanti del genere come quelli formati nel calcio da Didì, Vavà e Pelé, o il trio Ma-Gi-Ca, Maradona-Giordano-Careca. Nomi che adesso suonano “vintage” e nostalgici, perché parte di un calcio di un’altra epoca, che poi è forse uno dei motivi per cui siamo tutti ancora molto legati alle vicende di mister Oronzo Canà e della sua Longobarda.
Quello raccontato dal regista Sergio Martino era il calcio dei nostri genitori e dei nostri nonni, un calcio molto diverso da quello attuale e che abbiamo sentito solamente nei racconti di chi c’è stato o in qualche immagine a volte ancora in bianco e nero, e che fatichiamo ad associare al frenetico, fisico e decisamente meno romantico sport attuale.
Il calcio di Platini e Maradona e del Kaiser Rummenigge. Il calcio dei campionissimi come Zico e Socrates che potevano finire a giocare in squadre meno blasonate come l’Udinese e la Fiorentina. Il calcio della Serie A a 16 squadre e delle vittorie da 2 punti. Un calcio che non esiste più.
Eppure se analizziamo attentamente quelle che sono le vicende che si svolgono nel film, siamo poi davvero sicuri che la Serie A raccontata ormai quasi quarant’anni fa, sia così diversa da quella attuale? Insomma, siamo davvero di fronte a quei misteri pop come le previsioni dei Simpson, o piuttosto L’Allenatore nel Pallone ci aveva visto lungo, denunciando stranezze e anomalie di un mondo che probabilmente era già malato all’epoca, e che adesso sembra un giocattolo impazzito nelle mani di dirigenti poco oculati?
Partiamo proprio dalla premessa del film, che regge poi l’intera trama. La Longobarda è una classica squadra di provincia, che si ritrova promossa nella massima serie del campionato. Il presidente, il commendator Borlotti, si rende conto però che mantenere una squadra di Serie A esige un impegno economico non indifferente, e decide quindi di affidare la guida tecnica a Oronzo Canà (Lino Banfi), un mediocre e folkloristico allenatore, la cui mancanza di esperienza avrebbe rapidamente riportato la Longobarda nella più abbordabile Serie B.
Premesso che siamo di fronte letteralmente all’espediente narrativo che ha dato vita a Ted Lasso, che è una delle comedy più interessanti degli ultimi anni, quante volte abbiamo sentito malignare di alcune squadre in Serie A che sembrano più interessate a ricevere i soldi del cosiddetto “paracadute” che spettano a chi retrocede, piuttosto che a salvarsi e mantenere la categoria?
Quanto è diversa la “bizona” e il 5-5-5 di Oronzo Canà dal gegenpressing di Jurgen Klopp?
Quanto è diverso Canà che va in cerca di talenti sconosciuti in Brasile insieme ad Andrea Bergonzoni e il suo “fratello di leche” Giginho dalle squadre di oggi sempre più interessate al colpaccio low cost per poi rivenderlo a peso d’oro l’anno successivo?
Quanto sono diverse le trattative di mercato in cui “con le cessioni di Falchetti e Mengoni riusciamo ad avere la metà di Giordano, da girare all’Udinese per un quarto di Zico e tre quarti di Edinho” dalle magie di Adriano Galliani nei “giorni del condor”, e in generale da tutte quelle fastidiose plusvalenze e comproprietà che non fanno dormire i tifosi?
Quanto è diverso Aristoteles, il campione triste con la saudade, da tutte le storie di talenti fragili, da Edmundo ad Adriano all’ultimo Josip Ilicic?
“Cambia il tempo ma noi no”, avrebbe cantato Fiorella Mannoia solo tre anni dopo, e infatti anche se quelle citate poco sopra sono iperboli, possiamo comunque dire che quasi quarant’anni dopo il calcio resta un meraviglioso giocattolo misterioso, con i suoi scandali, le sue stranezze e i suoi personaggi pittoreschi, ed è forse proprio questa costante che ha reso L’Allenatore nel Pallone così memorabile.
A impreziosire il tutto ci sono poi alcune trovate registiche geniali, come quelle di unire immagini di repertorio a quelle girate per l’occasione, con un risultato sorprendentemente realistico, soprattutto per l’epoca. Ma soprattutto la presenza di calciatori dell’epoca, da Ciccio Graziani a Carletto Ancelotti, passando per “Picchio De Sisti” e tantissime altre leggende dell’epoca, che si prendevano molto meno sul serio di molte delle star del calcio attuale, che senza team di procuratori neanche si siedono al tavolo delle trattative per i diritti d’immagine.
Per tutti questi motivi stiamo parlando di un film la cui validità non è stata neanche intaccata dall’imbarazzante sequel, e dalle battute che tutti ancora oggi ci ritroviamo a citare nelle serate di calcio con gli amici.
Perché Oronzo Canà lo avremo anche “preso per un coglione”, ma in effetti per noi resterà sempre un eroe.