Air – La storia del grande salto sembra un film costruito per una durata più ampia ma tagliato in modo confuso e frettoloso
Quando ci lamentiamo dei film che durano tanto, intendiamo che assistiamo sempre più spesso a film di 2 ore e mezzo o 3 ore, dove circa un terzo del minutaggio appare ‘tagliabile’ e in molti casi appesantisce il ritmo e non porta granché in termini di narrazione.
Sappiamo bene invece che ci sono altrettanti film che rendono ampiamente digeribili le tre ore di durata, che quasi volano via senza farcene accorgere, se non fosse magari per qualche esigenza dettata dalla vescica.
Del resto, lo stesso Hitchcock sosteneva che la durata di un film dovrebbe essere direttamente commisurata alla capacità di resistenza della vescica umana. Ma al di là di ciò, quello che sicuramente non intendiamo e che non vorremmo mai vedere, è un film che sembra chiuso troppo in fretta per non eccedere nel minutaggio.
Questo purtroppo è un po’ il caso di Air (Air – La storia del grande salto), nuovo film di Ben Affleck, che in effetti alla regia non ha mai superato le due ore, ma i suoi precedenti lungometraggi – quasi sempre ben riusciti – apparivano perfetti da questo punto di vista. La sensazione che si ha guardando Air, invece, è quella di un film costruito per una durata più ampia ma tagliato in modo confuso e frettoloso.
Sostanzialmente tutto ruota sulla nascita della scarpa Air Jordan e la trattativa tra la famiglia del cestista e la Nike. Un’idea ambiziosa nei fatti più che nelle intenzioni, giacché un film con al centro la Nike parte ovviamente con tutti i favori del pronostico.
Lo script di Alex Convery però non riesce a uscire nel modo giusto dalla gabbia di quella trattativa, unico nodo intorno al quale si sviluppa Air, con un’introduzione eccessivamente sommaria e rapida che non ci presenta nemmeno adeguatamente il ricco cast fatto di nomi illustri.
Dopo le bellissime e nostalgiche sequenze dei titoli di testa, che già da sole ci regalano qualcosa di memorabile, il film ci porta all’inizio degli anni ’80, all’interno di quella faticosa trattativa già accennata dove in realtà Michael Jordan non lo vediamo mai, ma abbiamo un costante confronto tra sua madre Deloris (Viola Davis) e Sonny Vaccaro (Matt Damon) manager di Nike, esperto di basket e in cerca di talenti a cui far firmare contratti di sponsorizzazione con l’obiettivo di rilanciare un marchio all’epoca con una quota di mercato inferiore rispetto ad Adidas e Converse.
Proprio Adidas rappresenta la prima scelta di Jordan, che ama profondamente il marchio tedesco, così come molti altri suoi colleghi, eppure qui scopriamo passo dopo passo (ma a passo svelto) la storia di come Vaccaro & co. siano riusciti a portare il cestista alla corte di Phil Knight (Ben Affleck), CEO di Nike.
Il problema principale di Air, purtroppo, è che tutto resta troppo abbozzato. Il cast corale, in cui oltre ai personaggi già citati aggiungiamo Jason Bateman (Rob Strasser) e Chris Tucker (Howard White), viene penalizzato da una scrittura che non valorizza le loro performance, né aiuta a delineare sufficientemente la loro psicologia. Gli unici di cui percepiamo un po’ la natura sono i personaggi di Sonny e Phil: il primo è uno stacanovista con la passione per il proprio lavoro, ma anche un uomo dall’animo buono e sincero, qualità che spesso contrastano con un mondo fatto di squali. Sarà proprio questo aspetto in realtà – almeno secondo quanto mostrato in Air – a premiarlo e a fargli strappare la firma di Jordan. Phil invece è un sognatore, una sorta di hippy che ce l’ha fatta, che si gode il successo ma non stravolge del tutto la propria indole ribelle e quindi sa concedersi il rischio, quando è il momento.
Anche alla luce di questo è un peccato che questi personaggi non siano stati sfruttati di più, approfonditi maggiormente.
Di buono ovviamente c’è il comparto tecnico, da una fotografia sporca che ci riporta direttamente agli anni ’80, grazie al tocco del maestro Robert Richardson, tre volte premio Oscar, e poi una colonna sonora pazzesca che inframezza i lunghi e continui dialoghi, lasciandoci ascoltare perle come Ain’t Nobody di Chaka Khan o Axel F di Harold Faltermeyer.
“Air” resta un film piacevole e leggero, forse molto più di quel che ci aspettavamo, ed è persino commovente nell’urlo liberatorio di Sonny a trattativa conclusa, ma resta l’amaro in bocca per non aver fatto di più, per non aver curato maggiormente alcuni aspetti indubbiamente interessanti, dalla creazione delle scarpe – anche quella una pratica liquidata con poco -, alla crescita del marchio Nike, a molto altro ancora. Infine, sebbene comprendiamo in parte le ragioni di Affleck, permettetemi di dire che girare un film sulle Air Jordan senza Michael Jordan, è quantomeno strano.