Kingdom Hearts: Storia e Gloria del fritto misto più spettacolare di sempre
“La paura è l’oscura prigione della luce. Il coraggio è la chiave. “
“Una tempesta sovrannaturale trasporta Sora, una ragazzo di 14 anni, in una terra lontana. Da quel momento ha inizio il suo avventuroso viaggio alla ricerca dei suoi amici dispersi. Unisciti a Sora, incontra il Mago di Corte Paperino e Capitan Pippo e imbarcati in una coraggiosa avventura per trovare gli amici scomparsi e sconfiggere i malvagi Heartless”.
Correva l’anno 2002 e ci si affacciava al nuovo millennio con l’inguaribile ottimismo di un Dodo e all’epoca la PlayStation 2 sembrava la vetta massima della tecnologia videoludica. Di touch screen neanche a parlarne, a malapena i telefoni mandavano messaggi e il computer era conosciuto dalle masse come “il televisore con la tastiera”. Eravamo primitivi, senza ombra di dubbio. I più attempati crederanno che sia passata un eternità, invece sono trascorsi “solo” 13 anni. Un periodo di tempo paragonabile ad uno starnuto su scala cosmica, ma che assume un importanza fondamentale quando si parla della saga di cui ci apprestiamo ad esaminare il primo indimenticabile capitolo. Ovviamente, stiamo parlando di Kingdom Hearts, opera nata dal rapporto incestuoso tra la Square-Enix e la Disney.
Annunciato quasi per sbaglio all’E3 del 2001 come un gioco di ruolo sviluppato in associazione con Disney Interactive Studios, Kingdom Hearts fu accolto con un malcelato scetticismo coadiuvato da vibranti fremiti di sdegno. Si gridò spudoratamente alla commercialata, al connubio malandrino finalizzato alla pecunia, come un tentativo dell’azienda dello Zio Walt di espatriare oltre l’Oceano Pacifico in pianta stabile. In verità, la vicenda è molto più complessa. La leggenda narra che il buon Tetsuya Nomura, figura ormai di riferimento all’interno della Square, s’aggirasse una mattina tutto felice e spensierato per i corridoi dell’azienda, alla ricerca di qualcosa da fare. Volle il caso che il nostro giovane di belle speranze origliasse una conversazione tra Shinji Hashimoto e Hironobu Sakaguchi (non due mattacchioni qualsiasi: informatevi!) che verteva sullo spinoso argomento di Super Mario 64. Discutevano dell’idea stuzzicante di realizzare un titolo simile ma che tuttavia a pensarci bene solo i personaggi della Disney avrebbero potuto rivaleggiare col celebre idraulico. Nomura fiutò l’opportunità nell’aria e colse l’occasione al volo, offrendosi volontario di guidare il progetto. Fu forse la strana luce che i due produttori videro negli occhi di quel baldanzoso disegnatore a convincerli, o un educato tentativo di levarselo dalle scatole: fatto sta che accettarono e gli assegnarono la direzione, lasciandogli carta bianca. In seguito, un incontro casuale tra lo stesso Hashimoto e un dirigente della Disney in ascensore (voci non confermate dicono che “l’incontro” sia stato frutto di un agguato premeditato) diede il via definitivo all’idea. Nomura si fece caricò del ruolo cruciale della produzione, prendendo delle scelte a volte in totale disaccordo con i diktat societari e comandando un team composto da un centinaio di membri della Square e della Disney. In un primo momento si concentrarono più sul gameplay, privilegiando degli elementi dinamici e trascurando in parte la trama, che doveva fungere più come elemento di raccordo tra le varie sequenze d’azione. Successivamente, Nomura, folgorato da chissà quale divina rivelazione, cominciò a costruire intorno al gioco una sceneggiatura ricca e appassionante, sempre però restando ancorato ai canoni dello stile Disney. La scrematura e l’inserimento dei vari film fu una naturale conseguenza, una scelta improntata ad aiutare la storia aggiungendo ambientazioni capaci di sostenerla. Mancava solo il titolo, che Nomura ha dichiarato recentemente di aver ricavato pensando al Disney’s Animal Kingdom del Walt Disney Parks and Resorts. E alla fine, neanche fosse il professor Utonium, mischiando Disney, Final Fantasy e aggiungendo un elemento misterioso peggio del Chemical X, Nomura creò Kingdom Hearts.
E dunque il 28 marzo 2002 per gli amici giapponesi (mentre noi europei abbiamo atteso il 15 novembre), Kingdom Hearts arrivò nelle mani dei videogiocatori. Le vendite furono stupefacenti, con 750 mila copie smerciate nella sola terra nipponica, ricevendo anche numerosi premi e diventando il nono titolo più venduto nella storia della PlayStation 2. Il gioco fu elogiato per la sua insolita combinazione tra azione e RPG, caratterizzato da un gameplay di combattimento in terza persona in un momento storico dove le battaglie a turni regnavano ancora (per poco) indiscusse. Il tutto accompagnato da elementi innovativi, musiche da sogno, personaggi memorabili e un unione perfetta tra la Square e la Disney. Quello che però i giovani utenti di allora non sapevano (e che probabilmente non avrebbero mai potuto immaginare) è che avrebbero visto icone dal calibro di Cloud, Sephiroth e Squall Leonhart rivolgersi con nonchalance a Paperino, Pippo e Pluto. Questi mostri sacri dell’animazione filmica e videoludica sono stavolta al centro di una vicenda nuova, molto diversa da quelli che li ha visti protagonisti nelle proprie storie. La trama ruota attorno a Sora, un ragazzo di 14 anni di cui si sa poco, solo che se ne strafrega dei genitori e porta il numero di scarpe di Galactus. In verità, com’è stato rivelato dallo stesso Nomura, il suo design era ispirato a quello anni ’40 del nostro Topolino. Anche se, a quanto pare, Sora in origine doveva essere un leoncino umanoide, ipotesi poi scartata. Il ragazzo conduce una vita tranquilla sulle “Isole del Destino”, un minuscolo arcipelago situato chissà dove. Lui e i suoi migliori amici, il tenebroso Riku e l’inutile Kairi (citazione necessaria), stanno costruendo una zattera con l’obiettivo di andarsene a visitare dei fantomatici “mondi” (sì, con una zattera). Tuttavia, il giorno della partenza, le Isole del Destino vengono attaccate dagli Heartless, ombre che rubano i cuori delle loro vittime. Sora si precipita a controllare la zattera (sì, sempre la zattera), fa conoscenza delle romantiche creature e scopre di poterle “chiavare” (no, non è una metafora guerrafondaia) con una strana arma a forma di chiave comparsa dal nulla, chiamata Keyblade. Inoltre, vede i suoi amici, il tenebroso Riku e l’inutile Kairi, sparire nelle tenebre e sviene al termine di un epico scontro con un Heartless gigante. Al risveglio, apprende di trovarsi nella “Città di Mezzo”, uno dei mondi che voleva raggiungere con la zattera. L’incontro con Paperino e Pippo, rispettivamente Mago e Cavaliere di un misterioso “Re”, cambierà la sua vita. I nostri tre eroi decidono infatti di unirsi e di aiutarsi a vicenda, soprattutto dopo aver capito che Sora è il prescelto, il novello Custode del Keyblade e l’unico capace di salvare i mondi dalla distruzione. Se questo incipit non vi ha convinto, o pensate che sia oltremodo bislacco (il che è comprensibile) sappiate che si tratta solo dell’inizio di un avventura che vi porterà nel mezzo della grande battaglia tra Luce e Oscurità.
Il gameplay fu influenzato dalla classica realizzazione giapponese ma con un fortissimo taglio d’animazione disneyana. L’assenza di sangue, la grafica ridotta degli scontri e le atmosfere cartoon sono la prova evidente di queste attenzioni. Lo potremmo quasi definire un action RPG alla Zelda, dunque uno stile parecchio diverso dai canoni della Square. Le sequenze di gioco sono caratterizzate da battaglie frenetiche e frequenti quanto le risse allo stadio, al termine delle quali si possono trovare dei video o delle scene sviluppate tramite balloon. La fase esplorativa avviene come in un normale platform 3D: ci si può arrampicare, saltare, trovare scrigni disseminati lungo il tragitto e così via. Gli scontri sono strutturati come battaglie in tempo reale, dov’è possibile agganciare i nemici e riempirli di mazzate anche con la sola pressione del tasto X. Dunque, uno stile di combattimento molto diverso dai soliti parametri dei giochi di ruolo, anche se permangono degli elementi classici come i Punti Salute (HP) e i Punti Magia (MP). Grazie all’esperienza accumulata. tutti i componenti del party potevano salire di livello e sbloccare delle nuove abilità, aumentare la barra della vita e diventare più forti. Il menù sulla destra dello schermo, a volte un po’ macchinoso, permetteva di scegliere le azioni a vostra disposizione, perfino di effettuare delle evocazioni. I supporti che vi seguivano erano sempre Paperino e Pippo, più l’eroe del livello che state esplorando, come Aladin, Tarzan, Peter Pan e via dicendo. Oltre a quel simpaticone di Sora, unico personaggio controllato direttamente dal giocatore.
Tutto questo calato in una realtà esplorativa vasta ma non troppo, dove apparivano Heartless praticamente in qualunque momento. Le ambientazioni erano per la maggior parte ispirate a quelle dei film Disney, con relativi comprimari, ma a volte si trattava di mondi ideati di sana pianta. All’interno del gioco si poteva passare con due semplici click dal Bosco dei Cento Acri (Winnie The Pooh) all’Isola che Non C’è (Peter Pan), dalla Città di Mezzo alla Fortezza Oscura, passando per l’Olimpo (Hercules), Agrabah (Aladin), Atlantide (la Sirenetta) e molti altri ancora. Una caratteristica apprezzatissima, poi in parte accantonata dai seguiti, era che la trama delle diverse pellicole Disney veniva adattata a quella principale del gioco, creando delle sceneggiature autonome e originali, quasi una sorta di what if. Questo permetteva un’esperienza coinvolgente su una narrazione fatta di due piani: quello cinematografico e quello videoludico, forse pensati per non annoiare i giocatori che potevano conoscere a memoria i vari film inseriti. Nello scoprire la storia, venivamo ostacolati da un esercito nemico monumentale, comprendente centinaia di Heartless sviluppati con un design personalissimo, ispirato solo in parte a quello dei vari mondi esplorabili. Alcuni dei momenti più epici erano legati alle boss battle, che spesso avevano per avversari il non plus ultra dei villain Disney. La possibilità di poter affrontare faccia a faccia i cattivi del film di turno, con tanto di theme musicale appropriato, ti dava una scarica di adrenalina impagabile. Tutti abbiamo da bambini odiato o temuto i vari Jafar, Malefica, Ursula, Ade e Capitano Uncino e avere finalmente l’opportunità di prenderli a mazzate con il Keyblade rimane un’esperienza a dir poco liberatoria, nonostante gli anni trascorsi. E per fare questo ci avevano messo a disposizione un arsenale mica da ridere, ricco di una scelta da capogiro. L’officina Moguri, presa in prestito da Final Fantasy, permetteva di forgiare le armi da affidare a Sora, Paperino e Pippo aggiungendo la missione secondaria di raccogliere i materiali adatti alle elaborazioni, elemento che permetteva di saggiare in prima persona la vastità dei mondi e la varietà dei nemici. Ma come ci si muoveva attraverso tutte queste pellicole Disney?Che ci crediate a no, questo era possibile grazie ad una navicella spaziale creata da Cip e Ciop chiamata Gummiship, a causa del materiale con cui era costruita (i “Gummi), la navetta consentiva di viaggiare tra i vari mondi percorrendo dei livelli “spaziali” pieni di astronavi nemiche, quasi una sorta di Space Invaders in 3D.
Capitolo a parte (forse un articolo a parte) merita la bellissima colonna sonora del gioco, vero elemento aggiuntivo capace di dare al titolo un “anima” chiara e inconfondibile. Il soundtrack a tratti malinconico e nostalgico, stranamente in linea con la trama e la storia, dava al titolo una sfumatura emotiva unica. Quasi come un inno alla fantasia pura che aleggia in ogni angolo del gioco, canzoni che stimolano l’immaginazione ma che lasciano addosso una sorprendente sensazione di armonia. Per farvi capire quanto sia entrata nel cuore dei giocatori basta fare un semplice esperimento: caricate una musica a caso, diciamo Simple and Clean (Hikari in lingua originale) della formidabile Utada Hikaru, sul telefono, e fatela partire sul treno, sulla metro o sul bus. I ventenni che cadranno in lacrime come ragazzine dopo averla sentita (tra cui il sottoscritto) saranno dei fan di Kingdom Hearts. Questo titolo fu l’inizio di una saga che dura ormai da 13 anni e che ha venduto in totale più di 20 milioni di copie in giro per il mondo e ha dato vita a seguiti, spin off, prequel e contro prequel. Per non parlare dell’ampissimo merchandising, comprendente soundtrack, giocattoli, manga, guide strategiche e Keyblade in metallo.
I giochi successivi hanno subito un evoluzione graduale, discostandosi in parte dai vari canoni Disney ed evolvendo verso una trama più complessa, anche se a volte confusionaria. Nonostante questi difetti trascurabili, l’impensabile unione tra due realtà completamente agli antipodi può definirsi riuscitissima, sebbene agli inizi sembrasse quasi un’eresia, l’idea di un folle (e, ad essere onesti, sulla carta lo è tutt’ora). Non c’è una sola persona sulla faccia della terra che riuscirebbe a fondere insieme questi universi senza impazzire. Infatti nutriamo parecchi dubbi sulla salute mentale di Testuya Nomura, principale ideatore di questo bizzarro matrimonio. Tuttavia, ha dato vita ad un’armonia impensabile, perché, diciamocelo, non c’erano solo i protagonisti, le storie e i mondi che dovevano combaciare ma due stili opposti di lavoro. Pensateci un attimo: da una parte abbiamo la realtà giapponese dell’infinita fantasia, piena di cazzotti, mostroni e personaggi sopra le righe, mentre dall’altra il modus operandi di un’azienda cinematografica, cartoni animati fondati su dei canoni decennali, canzoncine orecchiabili e limiti prestabiliti. Dunque, tanto di cappello a Nomura che è riuscito a creare un vero gioiello partendo dai presupposti più difficili di sempre: fondere due culture diverse.