E dormire con la luce accesa torna subito di moda…
David Sandberg prende spunto da un suo cortometraggio del 2013 e prova cimentarsi in un lungo di 80 minuti (ben 77 in più della base di partenza), perpetrando il mito del Boogeyman, l’uomo nero, che negli ultimi anni, grazie soprattutto a prodotti di indubbia ed inaspettata qualità come lo splendido Babadook, sta vivendo quella che, in altri ambiti, viene definita una “seconda giovinezza”. Alle spalle del giovane Sandberg si staglia la figura imponente di James Wan (Saw, The Conjuring, Insidious) in veste di produttore…
Una bella responsabilità, per entrambi. Ma la domanda che vi pongono tutto sommato è semplice: avete ancora paura del buio?
Nella casa di Sophia, donna distrutta dai lutti che hanno sgretolato la sua famiglia, al calare della notte, quando si spengono le luci, un’oscura presenza arriva a tormentare suo figlio Martin che è costretto a fare i conti con le sue paure, che alimentano questa demoniaca creatura. In famiglia però non è il solo ad averla “vista”. Prima di lui anche sua sorella maggiore, Rebecca, ha dovuto vivere lo stesso incubo ad occhi aperti, lo stesso incubo che ha ridotto la loro stessa madre alla pazzia. Ma chi è questa figura misteriosa che si nutre di oscurità e paure? Qualcuno che conoscono molto bene…
Partiamo col dire che la trama non brilla certamente per originalità. Tutto il concetto di una figura oscura legata ovviamente al passato traumatico del protagonista è stata sfruttata in mille altri prodotti cinematografici ed ormai il fattore sorpresa della sua identità perde un po’ di mordente. Una cosa fisiologica e che, in qualche modo, può anche non disturbare eccessivamente la visione, se si ha la “pazienza” di accoglierla come il più classico dei cliché, qualcosa di cui il cinema si nutre da sempre.
Al netto di uno script onestamente scarno, Sandberg gioca benissimo con la fotografia e si trova a suo agio ogni qual volta c’è da mettere in scena il più classico dei jump-scare. Basta un niente affinché il trentacinquenne regista svedese riesca a farci saltare sulla poltrona facendo apparire (e scomparire) la terrificante figura che temiamo. La costruzione della tensione avviene quasi in maniera sistematica: basta una lampadina fulminata o qualsiasi fonte di luce singhiozzante per far sbucare fuori “il mostro”, mettendolo giustamente al centro della scena per tutto il film, nel tentativo di creare un nuovo personaggio classico del genere. Impresa che, a causa di un background anch’esso troppo inflazionato, fallisce, ma non clamorosamente come si potrebbe immaginare.
Diana, la presenza oscura che tormenta Sophia, Martin e Rebecca, è un qualcosa che funziona, non potrebbe essere altrimenti. Essa incarna la più innata delle paure umane e anche se si potrebbe azzardare che Sandberg abbia voluto “vincere facile”, non gli si può non riconoscere il merito di aver saputo giostrare sapientemente del materiale che sarebbe potuto risultare stantio fin dalla prima sequenza.
Peccato che fuori dal buio lo stesso regista non riesca a mantenere uniforme la qualità della pellicola, scadendo nel banale e nei classici (e fastidiosi) “spiegoni” atti a rivelare a poco a poco il passato tormentato della famiglia. I personaggi sono terribilmente monocordi, i dialoghi poverissimi di spunti e l’atmosfera generale stona fastidiosamente con le sequenze horror, non riuscendo a conservare nemmeno i rimasugli di quella sorprendente tensione.