Il giusto posto dell’originalità
Più volte mi è capitato di parlare dell’importanza che un autore dovrebbe dare al “messaggio” di un’opera, cioè al “cosa voleva dirci” e al motivo vero che c’è dietro al suo lavoro. Se il messaggio è di alto livello, l’opera è di alto livello, se è banale, l’opera è banale. Tuttavia spesso la banalità di un’opera è attribuita ad altro, ad esempio alla sua originalità. È sbagliato. Vediamo perché.
Mi capita di leggere o sentir dire che una certa opera (che sia un film, un libro, un fumetto, un racconto o qualsiasi altra cosa) non è stata apprezzata perché non è originale. Sin da bambino, leggendo molto, questa cosa dell’originalità l’ho sempre considerata molto curiosa. Chi legge molto, guarda molti film, passa attraverso decine di fumetti, racconti, trame di videogiochi o serie televisive, si rende velocemente conto che il “valore” dell’originalità in realtà è relativo. Direi meglio: addizionale. Se un’opera, il cui valore è attestato da altri fattori, è anche originale, questo è indubbiamente un pregio. Un’opera originale che fa schifo, fa schifo anche se è originale, al limite si meriterà una noticina a parte “però l’idea era originale”, e magari l’aggiunta di “peccato”.
Senza doverci ridurre alla sintesi estrema di Italo Calvino, secondo cui “il senso ultimo a cui rimandano tutti i racconti ha solo due facce: la continuità della vita o l’inevitabilità della morte”, è chiaro che l’originalità non dovrebbe essere l’ambizione principale di uno scrittore, il quale dovrebbe puntare invece a scrivere qualcosa di bello, nel senso di elevato sia artisticamente che stilisticamente. A volte un’opera è priva di un messaggio rilevante, ma è tecnicamente pregevole e quindi il suo valore sta nella qualità e il virtuosismo con la quale è stata creata; altre volte invece è quello che l’opera ci comunica che ha valore, che ci colpisce, e per la quale quindi va apprezzata. Premettendo che io personalmente apprezzo molto le prime ma prediligo le seconde, è chiaro che essere originali è un obiettivo falso.
Per dare valore e corpo a questa ipotesi prendo un esempio molto popolare, che è quello della letteratura supereroistica. Stiamo parlando essenzialmente di fumetti, ma anche di film e serie televisive. Nel 90% dei casi l’eroe è un tizio dotato di capacità peculiari (fuori dalla norma, non per forza fisiche, ma anche monetarie per dire) che decide di combattere il male. Se dovessimo giudicare un qualsiasi film di supereroi, o un qualsiasi fumetto del genere, sulla base dell’originalità, dovremmo dargli zero. Ma il valore di un’opera che appartiene a questo genere sta nel messaggio che ci viene trasmesso da chi la scrive: potrebbe essere una riflessione sulla solitudine dell’uomo, sul riscatto di un’esistenza, potrebbe parlarci di segregazione razziale, di un punto di vista distante sull’umanità, del rapporto difficile tra un padre e un figlio, e così via. E il livello del discorso, quanto si spinge nel vero e nel profondo, ci darebbe un metro per giudicare la qualità dell’opera. La banalità sarebbe che parlasse solo di come tizio è diventato super-tizio e di come ha sconfitto caio.
L’altro metro è appunto la qualità tecnica. Forse l’opera ha intenzioni grandiose, veicola messaggi e riflessioni importanti, ma lo fa in maniera criptica, oppure noiosa, oppure peggio ancora li banalizza o li volgarizza. Viceversa è la solita storia di tizio che diventa super-tizio e poi sconfigge caio, ma è realizzata in maniera talmente magistrale che il suo valore è estetico a prescindere dal messaggio: un libro o un racconto dalla prosa coinvolgente, un fumetto disegnato in maniera spettacolare, un film dalla regia e dalla fotografia impeccabili.
Ecco quindi il mio consiglio di oggi a tutti gli autori in giro: lavorate sul messaggio e sulla tecnica, non sull’idea. Perché quella stessa idea ce l’avrà di sicuro già avuta qualcun altro prima di voi, ma voi dovete puntare a sfruttarla per dire quello che avete da dire in proposito, e a dirlo meglio di lui.
A cura di Luigi Bigio Cecchi