Più ascolti, più dolce è il suono
– A te che sei qui. Prima di leggere questo lungo papier metti su almeno un pezzo dei Black Strobe –
Eclettico, adrenalinico, per certi versi quasi schizoide. Guy Stuart Ritchie nasce nel 1968 a Hatfield da una famiglia benestante e, pare, con origini nobili. A scuola non è mai stato particolarmente brillante ed anzi, dislessico da sempre, sembra non riuscisse ad ottenere i risultati che gli venivano richiesti, tanto da mandare a fanculo la scuola dell’obbligo ben prima che avesse anche solo il permesso di farlo. Il tutto con in testa un obiettivo: farsi le ossa nel mondo del cinema.
Una vita strana quella di Ritchie, praticamente un outsider del grande schermo, dotato di talento e poco più di qualche buona intenzione (come quella di diplomarsi per diventare un regista di spot televisivi, che ovviamente mai ha messo in pratica). A Guy sembra però non servire nient’altro, tanto che ancora in età da liceo riesce, un po’ per ambizione, un po’ per fortuna, a farsi produrre un intero film avendo alle spalle solo un cortometraggio. Il film, manco a dirlo, è Lock & Stock, e come si suol dire, tutto il resto è storia.
Un sangue blu che ama rovistare nel torbido
Agli inizi degli anni 2000 gli inglesi dicevano agli americani “voi avete Quentin Tarantino, ma noi abbiamo Guy Ritchie“.
Come il re del dialogo di Knoxville, Ritchie è estremo ed esagerato, ci prende gusto a costruire dialoghi ai limiti dell’assurdo, condendo il tutto con uno slang da strada, rude, sporco. Uno slang fatto di epiteti, sberleffi, improbabili flessioni dialettali. Il cinema di Ritchie è un cinema di pancia, viscerale, che va a rovistare nel budello della sua Inghilterra, lontanissima dai fasti della corona, per raccontare di gente vera… in situazioni del cazzo.
Laddove il vecchio filone dei crime movie dipingeva un quadro quasi manicheo delle parti, Ritchie sconvolge tutto e porta sullo schermo una combriccola di falliti, eroi ma il più delle volte criminali a loro volta. Per certi versi siamo dalle parti di Irvine Welsh, ma mentre lì la commedia era nulla più che un paradosso del disagio, qui disagio e commedia viaggiano di pari passo, con l’eccezionale pregio di non smontare o mortificare le azioni criminose dei protagonisti. L’affascinante disinvoltura di Ritchie è quella di saper scrivere atmosfere e situazioni che, per quanto paradossali, sembrano estrapolate dalla vita reale, costruendo personaggi le cui uniche virtù si trovano nello spettro della loro amoralità.
Da Lock & Stock a Jason Statham
Di sangue nobile, si diceva, ma nato e cresciuto nella più umile campagna inglese, Guy Ritchie si concentra fin da subito sulla sua abizione cinematografica. Lascia la scuola e appena ne ha l’occasione si fionda verso il mondo del cinema cercando in suo padre il supporto morale per la propria carriera.
È il 1988, Ritchie ha sedici anni, e con il suo vecchio riesce a mettersi in contatto con Peter Morton, il co-fondatore della catena Hard Rock Cafe. Morton non è un cineasta, di cinema non ne sa nulla, ma vede nell’idea di Ritchie il potenziale per qualcosa di buono e, da buon imprenditore, annusa l’affare. Morton contatta allora suo nipote, tale Matthew Vaughn, che magari voi ricordere per il primo adattamento al cinema di Kick-Ass (magari) e assieme i tre riescono ad ottenere i soldi per il primo lungometraggio di Ritchie. The Hard case, il corto di venti minuti girato da Ritchie solo 3 anni prima, è il miglior biglietto da visita possibile tanto che la produzione, proprio dopo la visione dello short movie, decide di investire nel talento del ragazzo. Vaughn, a quel punto, entra anche lui in partita, cominciando una collaborazione con Ritchie ed una profonda amicizia, che porterà i due a lavorare fianco a fianco sia per Snatch che per il dimenticabilissimo Travolti dal Destino.
Con appena 980.000 Sterline, ha inizio così la produzione di Lock, Stock and Two Smoking Barrels, girato e finito in appena otto mesi, e rilasciato inizialmente solo in Gran Bretagna. Il film è la prima vera prova di Ritchie, ma si rivela subito un successo, portando nelle sue tasche ed in quelle di Vaughn ben 9 milioni di sterline a cranio, e lanciando sulla scena un nuovo talento del cinema inglese: l’allora misconosciuto Jason Statham, che ben presto diviene un autentico feticcio per il cineasta inglese.
Il film fa letteralmente il botto, in Inghilterra come nel resto del mondo. I dialoghi taglienti e le situazioni ai limiti dell’assurdo conquistano pubblico e critica. Il ritmo dei dialoghi è serrato, l’azione invece sincopata. Ritchie riprende il tema dei “winning losers” e trasforma il proletariato inglese nel nuovo grande protagonista del cinema pop. Anche se Ritchie non è “pop”, ma più propriamente “rock”, grazie alla sua abilità nello sceneggiare storie dal ritmo invidiabile e con un ineguagliabile abilità nella costruzione degli incastri narrativi.
“Ritmo” diventa il termine che meglio definisce il cinema “puramente” ritchiano. Un ritmo che si lascia scandire dalla musica: eccentrica, calzante, assolutamente dominante nelle opere del regista. Ritchie mescola generi musicali nelle sue colonne sonore, creando spesso pout pourì di eclettica bellezza, con pezzi autenticamente inglesi, spesso rock, talvolta punk, semplicemente duri. E così il suo cinema fa proprio del ritmo il vero protagonista.
La sequenza iniziale di Lock, Stock and Two Smoking Barrels è il sintomo più evidente della volontà del cineasta di creare un’ambientazione sempre turbinosa ed adrenalinica, spesso molto confusionaria, per far crescere in armonia il suo succitato protagonista, in un habitat disordinato, eccentrico, ma tremendamente coinvolgente.
Humor nero e slapstick comedy
Lock & Stock è il simbolo dello stile di Ritchie, e da molti indicato come il suo miglior lavoro, nonostante non si tratti certo di un film tecnicamente perfetto soprattutto per via di un basso budget. Eppure in quanto a stile non si fa parlare dietro, ed è diventato nel giro di pochi anni un vero cult nonché un caposaldo del crime adrenalinico, catapultandoci in un’atmosfera suggestiva all’interno di una capitale inglese irreale e macchiettistica. In tal senso Ritchie si rifà alla commedia inglese, fisica e caciarona, a cui Lock & Stock evidentemente ammicca per presentare situazioni ai limiti del ridicolo.
Intendiamoci: niente personaggi vestiti da gorilla o “bobbies” che rincorrono tizi a la Benny Hill Show. Da quella filosofia Ritchie riprende semplicemente il modo con cui i personaggi interagiscono con la scena, nello schema con cui la violenza viene ridicolizzata dalla burla. Accenti sconclusionati e movimenti scoordinati non mortificano né ridicolizzano ma donano ai personaggi un carattere invidiabile, tale da renderli memorabili. Il paradigma del cinema di Ritchie, che ancora più che delle questioni di sceneggiatura lo rende adeguato ad un paragone con Tarantino è proprio qui: nei suoi personaggi. Memorabili, iconici, “pop” nella misura in cui si rendono popolari e riconoscibili. Lock & Stock traccia in tal senso una linea guida, il culmine sarà il suo successore, forse il più popolare campione della filmografia del regista: il mai troppo apprezzato Snatch.
Oh babuzzi: ti piacciono i coni?
Con Lock & Stock, Ritchie ottiene un successo planetario. Il suo è un modo di costruire le storie che ha pochi, pochissimi rivali. Complice il successo del già citato Tarantino, che aveva dominato i ’90 con le sue storie a scatole cinesi, il cinema ritrova l’amore per le trame multilineari. Più propriamente, come coniato da Alissa Quart anni dopo (anche se lei lo fece per Syriana che, paradossalmente, era un’opera multilink), Ritchie diventa uno dei campioni del cinema “hyperlink“, un cinema in cui l’esperienza verticale della fruizione, quella cioè propriamente detta della storia e delle sue trame, viaggia di pari passo (e a volte quasi passa in secondo piano) rispetto al racconto orizzontale, ovvero quello di persone, personaggi e delle loro connessioni. Snatch, in tal senso, è la migliore opera del regista per comprendere questo paradigma a cui, giusto per cultura cinematografica ci sentiamo di consigliarvi anche i bellissimi (e ovviamente non di Ritchie), Traffic, Magnolia, 21 Grammi e l’ultimo grande film delle Watchowsky: Cloud Atlas.
Ma tornando a Snatch, il film arriva nei cinema con una aspettativa altissima, complice tanto il successo ottenuto dal precedente capolavoro, quanto per la presenza nel cast di due stelle di prima grandezza nel panorama del cinema internazionale: Benicio Del Toro e Brad Pitt. Mito vuole che quest’ultimo, innamoratosi di Lock & Stock, avesse rinunciato al suo “tipico” cachet per partecipare al film, dando la possibilità alla produzione di rientrare nel budget. Come sia sia, Snatch è un successo al botteghino, ma non sembra convincere la critica, nazionale e non. La stampa accusa Ritchie di essersi “semplicemente” replicato, mettendo su un film che è un more of the same di quanto già visto.
Eppure Snatch si dimostra, per alcuni aspetti, ancor più estremo nelle scelte di costruzione dei personaggi e dei dialoghi. Non che mancassero situazioni paradossali (o coni) nel primo film, semplicemente Snatch estremizza ogni aspetto del cinema del regista, specie per ciò che riguarda i personaggi, sempre più vicini a caricature comiche che a veri criminali. Un Brad Pitt quanto mai “caratteristico” detta senza impegno una cifra stilistica impareggiabile. Il suo Mickey è un pugile zingaro dall’accento shelta con la passione per i combattimenti clandestini. La vicinanza con l’uscita di Fight Club, praticamente dell’anno precedente, rende la presenza di Pitt ancor più memorabile e sopregiudicata. Considerato da alcuni (risparmiassero il fiato per la minestra) uno dei peggiori personaggi di origine scozzese del cinema, Mickey lo zingaro è insieme ad altri (Tony Pallottola al dente su tutti) uno dei più grandi ruoli disegnati da Guy Ritchie, e rappresenta meglio di tutti l’eclettismo, lo stile, la sagacia nel riunire in un solo personaggio humor, satira, violenza, stile. The Snatch è il manifesto della filosofia “a la Guy Ritchie” e in quanto tale e forse il suo film più bello.
Travolto dal destino
Dopo due successi planetari al botteghino e la pletora di complimenti da buona parte dei critici del mondo, Ritchie si gode una bella botta di ego quando, proprio per Snatch, viene candidato al suo primo premio importante: il Bafta, che tuttavia non vince, ma che gli dà l’idea di uscire fuori dai suoi schemi per lavorare a qualcosa di completamente diverso. Decide quindi, assieme a sua moglie, l’icona della musica e sex symbol Madonna, di acquistare da Lina Wertmuller i diritti di uno dei suoi capolavori: Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare di agosto. Il piano è semplice: sostituire l’originale Mariangela Melato con Madonna (che tra le altre cose aveva diretto, l’anno prima, nel videoclip di “What i Feels Like for a Girl), e Giancarlo Giannini con suo figlio Adriano. Il copione, che prenderà il nome di Travolti dal destino (Swept Away in lingua originale) è – senza mezze misure – una schifezza.
Della base Ritchie tiene solo il tema del naufragio, scomponendo o peggio, distruggendo, ogni riferimento all’originale ed alla sua neanche troppo velata critica sociale.
Swept Away è un flop, il peggior film del regista e, paradossalmente, quello di cui si era detto più orgoglioso alla fine delle riprese. Il fallimento, con conseguente candidatura (e vittoria) ai Razzie per Peggior Regista e Peggior Film e pentimento della Wertmuller (che si dirà, appunto, pentita di aver ceduto i diritti) sconvolgono e colpiscono Ritchie, che cade in un vuoto creativo dal quale uscirà solo tre anni dopo.
Il talento di Mr. Green
Uscito nel 2005, Revolver è uno dei più strani e controversi film del regista. È l’abnegazione del canone ritchiano e, in un certo qual modo, anche la sua sublimazione. Descrivere Revolver significa dirvi che una buona metà di voi si andrà ad approfondire la trama su Wikipedia, ma non per i motivi tipici dei film dai finali sospesi (alla fine la fottuta trottola cadeva o no?), quanto per una certa sconclusionatezza che domina, come una maledizione, l’intera trama dell’opera.
Revolver è Ritchie che vuole tornare Ritchie, ma che per qualche motivo ancora non riesce a ritrovare se stesso. La presenza di Madonna (da cui divorzierà 3 anni dopo) nella vita del regista c’è, si percepisce. Il plot è infarcito di riferimenti cabalistici – sintomo proprio dell’influenza della Ciccone – e non bastano gli altisonanti nomi di Luc Besson, alla produzione, e di Statham, di nuovo e sempre protagonista, per riuscire a risolvere in bene la situazione.
Revolver è un’opera confusionaria e convulsa, che ricorda stilisticamente i suoi precedenti lavori, ma lo fa in maniera esasperata, diventando la caricatura del suo stesso cinema.
I più cattivi diranno che la differenza tra Travolti dal destino e Revoler è che mentre il primo è un brutto film e basta, il secondo è un brutto film di Guy Ritchie.
Troppo severi, forse, perché in effetti qui di spunti di interessanti ce ne sono, ma le considerazioni fatte prima in merito all’esasperazione dei toni che rendevano le prime due opere così naturali, diventano talmente complesse da tirar fuori un film troppo noioso e privo di senso. Un inutile esercizio di stile, che viene in parte risolto sono negli anni successivi, quando a Revolver si concede un’edizione rimasterizzata e tagliuzzata, che sposta l’ordine cronologico delle scene per ricostruire il film quasi da capo. Incredibile a dirsi, in questa nuova visione del regista, l’opera ne esce rinata dimostrando come persino in Revolver ci fossero le giuste premesse per tornare ad essere grandi. Giusto il tempo di levarsi Madonna dalle palle…
I’m a man!
Tre anni ancora, e torna la ribalta. Rocknrolla è Guy Ritchie allo stato puro. RocknRolla è cinema pop allo stato brado. Ritchie rovista nel lerciume della Londra più autenticamente punk e costruisce la storia di Johnny Quidd. Un musicista, una star, un rocknrolla. Un nuovo feticcio si instaura nel suo cinema, Mark Strong, oggi più che mai icona della settima arte più genuinamente urban e inglese. Rocknrolla è tutto quello che sarebbe dovuto essere il terzo film del regista, e che purtroppo non fu.
La musica la fa da padrona, raccontando una storia di crimine sotto un punto di vista diverso. Non criminali che goffamente finiscono nei guai, ma un crime movie in cui c’è una precisa scala gerarchica del male, al cui vertice c’è, iconicamente, il criminale in giacca e cravatta, ricco e presuntuoso. Per far ciò il regista scrive una storia con tutti i crismi, forse l’unica veramente degna di un sequel, e si circonda di un cast importante, con Gerard Butler, Tom Hardy, Tom Wilkinson, Toby Kebbell, Idris Elba e il succitato Strong ripennellando quelle atmosfere londinesi che tanto ci avevano affascinato.
Anche qui la trama non è il piatto forte, tuttavia pure il ritmo vive perennemente nell’ombra dei suoi illustri antenati, e sono gli effetti collaterali, gli incidenti, il caos generato dalla gangster squad e una colonna sonora favolosa a fare da traino all’opera. Insomma RocknRolla è un po’ un figlio d’arte che vive di luce riflessa grazie alla strada tracciata dai suoi genitori, ma che nonostante tutto non si bea di fare un semplice compitino per una sufficienza risicata. Anzi Ritchie sperimenta nuove tecniche (la body cam su tutte), crea personaggi più spiccatamente borderline, e ampia l’orizzonte delle sue storie, creando un file rouge tra i personaggi così lungo da legarli letteralmente tutti, dal primo all’ultimo. È il suo ritorno sulle scene contaminato dal palcoscenico hollywoodiano, che modifica profondamente la “sua” visione dell’Inghilterra, popolare, ma per certi versi meno “grunge” di quanto non fosse stata alla fine degli anni ’90.
Elementare!
Se RocknRolla è la matrice del cambiamento (e forse della maturazione) di Ritchie, Sherlock Holmes ne è certamente il suo manifesto. Quando mette le mani sull’opera di Arthur Conan Doyle, infatti, ne esce fuori un prodotto (anzi, due) che si mescola sensibilmente alla commercialità, creando una situazione quasi paradossale. Ritchie, l’artista “di strada”, si confronta per la prima volta con l’idea di un blockbuster di matrice hollywodiana, in quella che è una prova che, almeno nella filosofia, avrebbe potuto fargli pestare la merda una volta di troppo nel corso di una filmografia da poco in (ri)ascesa.
Sherlock Holmes è invece un successo, e seppur il film sia costruito in modo invidiabile (come è invidiabile l’aderenza al personaggio di Doyle), è certamente nei suoi volti che il regista riesce a configurare gran parte del trionfo. Dopo abusi di droga e reiterati problemi con la legge, Robert Downey Junior sta letteralmente conquistando Hollywood, grazie all’intuito di una Marvel Comics che, libera dal giogo delle major del cinema, si è messa in proprio con il primo autentico “cinecomic” di genere: Iron Man.
Estremo, eccessivo, talvolte violento, Tony Stark è, di fatto, il RDJ dei fumetti. Il personaggio sembra scritto per lui e Robert calza i panni di Iron Man come un guanto, tanto da diventare il nuovo (nuovo?) golden boy. Il ritorno in auge di Robert Downey Jr trascina via il regista dalla sua autorialità, portando Sherlock Holmes in un’atmosfera ruffianamente steampunk, con alcune trovate che strizzano palesemente l’occhio ad un cinema leggero e “in voga” che invogli il pubblico a prendere d’assalto il botteghino. Come sia sia, è evidente che la famigerata confusione ritchiana stavolta è più dettata dalla sensazione che il cineasta, in una produzione simile, sia un po’ un pesce fuor d’acqua che dai precetti del suo stile. Il film è divertente, il cast funziona e Holmes e Watson (Jude Law) hanno una buona intesa, ma l’estetica è predominante ed a tratti narcisista, e le buone idee semplicemente non trovano una collocazione precisa e sempre vincente, tanto che il more of the same del secondo capitolo ottiene un successo tiepido e poco più. Il punto è che, pur mantenendo una forte caratterizzazione della sua amata Inghilterra, con la serie di Sherlock Holmes il cinema di Guy quasi si svuota totalmente delle sue qualità distintive, perde il proprio DNA.
Un DNA dall’animo punk, che grida fortissimo la propria individualità e si fa orgoglio di una certa cifra stilistica. A vedere King Arthur ci sarebbe da sperare che quanto di buono fatto con Holmes sia qui spinto all’ennesima potenza. C’è da sperare che lo sperimentalismo di Ritchie, almeno dietro la camera, non si faccia scudo delle mode del cinema del momento e torni ad avere la sua precisa (e per altro dignitosissima) autorialità. Quel che è certo è che qui avremo a che fare con un nuovo Ritchie, con un regista completamente diverso rispetto al passato, ora pronto a mettersi a confronto con la lunga serialità di un progetto che, almeno nelle intenzioni, dovrebbe coprire ben sei pellicole per un unico universo narrativo. Opera non da poco, e la merda è sempre dietro l’angolo pronta per essere pestata, ma ad ogni ritorno Guy Ritchie è sempre più motivato, sempre più duro, fondamentalmente sempre più rocknrolla. Un vero rocknrolla. E un vero rocknrolla vuole tutto!
– Quello che comincia dolce finisce amaro e quello che comincia amaro finisce dolce… –
A cura di Raffaele Giasi e Tiziano Costantini