13 buone ragioni per farla finita. O no? (PRIMA PARTE)
Sulla scia del manifesto della netflixiana Hannah Baker, che sdogana finalmente quell’atteggiamento passivo-aggressivo di cui nessuno si vuol mai sentire accusato, Stefano Bonfanti prova a vedere se arriva a tredici con i motivi per appendere al chiodo tanto la matita quanto il badge di editore. Finirà in un bagno di sangue?
Diciassette è proverbialmente un numero funesto per la nostra penisola dato che il tredici, sfigato all’estero, è invece sinonimo della fortuna di chi sbanca il Totocalcio dal boom degli anni sessanta in poi. E se diciassette sono gli anni da quanto iniziai il mio percorso autorial-editoriale, facciamo dunque che tredici sono i buoni motivi per i quali potrei terminarlo. Vediamo un po’.
1) L’Autoproduzione
Esordire con un’Autoproduzione agli inizi dei duemila, dopo che molte fumetterie si erano scottate con una sovrabbondanza di fumetti autoprodotti di infimo livello, significava marchiarsi con la “A” scarlatta e suscitare diffidenza ai più. “Se pubblichi te stesso è perché nessun vero Editore vorrebbe farlo”.
Poco importa se la nostra Autoproduzione ha poi mandato esaurite tirature da migliaia di copie, con titoli ristampati oltre sette volte. Poco importa se, pubblicando noi stessi, abbiamo acquisito competenze, struttura e presenza sul mercato tanto da diventare una vera casa editrice con una squadra di autori validissimi, premiati e lanciati verso l’Olimpo. Quella “A” scarlatta, ancora, non vuol sbiadirsi.
2) “Molti altri”
Ho imparato presto che è vano pretendere di essere fra i primi autori di fumetti che vengono in mente. Poi ho imparato che non sono neanche fra i secondi, dato che nella nicchia del mercato del fumetto, mi sono volontariamente rifugiato nella sotto-nicchia del fumetto umoristico. E ancora nella sotto-sotto-nicchia dell’editoria “indipendente”.
Quindi, parafrasando Elio, “non dico proprio il primo della lista”. Ma il fatto è che non sono neanche l’ultimo dei fessi (o comunque lo si voglia dire). Ogni volta che partecipo a una collettiva di qualche sorta, il mio nome è da sottintendersi nel finale “…e molti altri!”.
Credo dipenda in larga parte da miei problemi caratteriali. Sì, ok, introverso e riservato quanto vuoi, ma già a molti acclamati artisti non cavi una parola, eppure stanno nell’olimpo. Sicuramente sono troppo propenso all’erronea concezione di lasciar parlare il mio lavoro: il guaio è che può dire tutto quello che vuole ma resterà inascoltato finché dietro il muro dell’anonimato e dei luoghi comuni. Anonimato in quanto sono allergico a relazionarmi col jet-set. Lo spirito da bastian contrario che, ahimé, ho ereditato e trasmesso alle generazioni successive, mi impedisce di riconoscere alcuno come “intoccabile” e di conseguenza la mia indole da maschio alfa (non sostenuta però da un particolare piglio) mi fa partire con un handicap quando ho a che fare coi pezzi da novanta o con le varie cricche autocelebrative che costellano l’alto panorama. Ergo, non trovando un posto fra la bella gente, già mi gioco una buona fetta di prestigio da associare al mio nome.
L’altro fronte, quello dei luoghi comuni, si rifà alle nicchie in cui prima dichiaravo di essermi sepolto. Avere come colonna portante della mia presenza sul mercato un animaletto buffo e dal nome inoffensivo mi fa sentire come se arrivassi a un pool party a bordo di un camioncino dei gelati, in mezzo a SUV e Lamborghini. In quel camioncino ci sono cresciuto, gli ho truccato il motore e ci vado in derapata, ma il giudizio si ferma ai primi tintinnii delle campanelle. Mi è piaciuta (si fa per dire) la reazione del responsabile comics di un notissimo evento l’altro giorno al telefono. Mi chiedeva di titoli che avevo pubblicato da portare in una fiera all’estero, gli annuncio che alcuni li ho in lingua inglese. Denota interesse. Poi gli dico che si tratta di Zannablù e lui, brutalmente, esterna la sua delusione con un secco e gutturale “Ah”. Quasi un rantoloso “Ā”, che racchiude in sé un tacito “e io che ti stavo pure ad ascoltare”.
E che dire allora, pure dei titoli che pubblico potrei elencare tutti i miei (bravissimi) autori, senza annoverarmi fra loro, ma poi chiudendo con “…e molti altri”.
3) L’esperienza NON insegna
Non sono più – come si dice – un pischello e non venga dunque preso come vanto di chissà quale sagacia dire che ormai “conosco i miei polli”.
Un progetto destinato a naufragare mi puzza di Titanic già dalla sua presentazione e spesso riesco ad elencarne preventivamente i vari iceberg, ma solo in ricordo di ogni volta in cui io stesso ero fra quelli che continuavano a suonare mentre colavano a picco.
Eppure ogni tanto la mia indole romantica viene a galla urlando “I want to believe” e, nonostante tutto, mi imbarco in situazioni destinate alla disfatta. Non c’è niente che dolga come l’orgoglio ferito, specialmente quando ti senti ingenuo per aver dato ascolto a promesse vane e sperticate, ma ancor di più quando hai ormai affinato l’olfatto e le sai riconoscere come tali. Quali alchimie mi costringono ancora a partecipare a fiere, a pubblicare progetti o ad accettare incarichi che marciano baldanzosi verso l’abisso?
Non lo so e la tentazione di eliminare il problema alla radice a volte sembra il suggerimento più sensato che la mia esperienza mi voglia dare.
Ma… I want to believe.
4) Colpa dell’editore
Nessuno abbia motivo di ritenersi l’unico chiamato in causa, dato che invece si tratta di corsi e ricorsi storici, seppure di entità variabile fra il mugugno e la terza guerra mondiale. Fatto è che periodicamente scoppia la bolla e un editore svela il suo piano diabolico di stampare i libri per riempire i suoi magazzini e non condividerli con nessuno.
“I miei libri non vendono abbastanza!” dice l’autore. “Ma sì che vendono, guarda!” dice l’editore. “Non vendono quanto dovrebbero”. E lì sei in scacco, perché ti bruciano la pur valida opzione che magari il riscontro di mercato rispecchi né più né meno che l’apprezzamento adeguato a un titolo.
Ti senti dire che non fai abbastanza per promuovere i libri che pubblichi. Rispondi che non è vero e che hai fatto questo, quello e quell’altro. “Ah beh, ma non è il tipo di promozione che avresti dovuto fare”. Oltre c’è solo il complottismo più spinto.
Certo, lo ammetto, questa è una deriva un po’ estrema e, quando siamo fra persone ragionevoli, si torna subito a più miti consigli, specialmente quando poi si raccolgono prove e testimonianze del fatto che anche in realtà ben più colossali e strutturate, spesso le cose funzionino esattamente come in casa Dentiblù.
Resta però il fatto che monta un’ansia da prestazione che poi, confrontata con quello che vivi quando l’autore sei tu e gli editori sono altri, ti fa sentire decisamente fra l’incudine e il martello. Nell’eterna attesa che venga sferrato il prossimo colpo.
Chiudo qui la prima tranche di “reasons why”, ma vi lascio il beneficio di un finale aperto. Ancora a quel chiodo non è appeso niente e io, a differenza di Hannah Baker, non ho gli occhioni e la bella chioma che rendano più sopportabile un saputello passivo-aggressivo.
Vedremo se vi libererete mai di me.