Parallelismi tra arte e videogioco
Ebbene si cari lettori nerdofili che non siete altro, voi che ogni giorno condividete momenti indimenticabili con il vostro pad, voi che nascondete la vostra passione e la vostra goduria per timore di essere giudicati, se aveste la possibilità di potervi difendere dicendo che il Videogioco è l’ottava arte, come vi sentireste? Di certo l’argomento è quello più controverso e non oggettivo, per ora, da poter affrontare. Ci sono tanti articoli sul rapporto tra il videogioco e la cultura o che comunque trattano l’aspetto “artistico” di un videogame. La riflessione di oggi, se ancora non si era intuito, riguarda proprio la parola ARTE associata all’intrattenimento più coinvolgente che sia mai stato concepito (a mio parere), il video – gioco, e sottolineo videogioco.
La domanda giusta da farci non è se il videogioco sia o meno un prodotto d’arte, ma su quali basi e secondo quali principi, dovremmo valutarlo per giudicarlo tale. Credo che la risposta sia da ricercarsi nel percorso che ha portato il cinema illo tempore ad essere definito Arte, anche se ancora oggi alcuni hanno dei dubbi in proposito (ma come si fa?!?!?!?). Quando negli anni ‘20 fu coniata l’espressione settima arte, si faceva riferimento al cinema come ad un “nuovo mezzo di espressione” che univa lo spazio, il tempo e la dimensione e ci è voluto un po’ prima che potesse davvero essere considerato un qualcosa che fa “cultura”. Questo molto in breve, ovviamente. Allora, cosa limita il videogioco nel suo percorso verso la definizione di prodotto artistico? Secondo il mio parere e la mia esperienza in campo sia artistico propriamente detto, che di videogiocatrice di vecchia data, bisogna concedere al videogioco la giusta maturazione: la verità è che ciò noi giudichiamo “artistico” in un videogame non è il videogioco in sé, ma i prodotti di qualità artistica che sono presenti al suo interno. E cioè, le colonne sonore o le musiche che accompagnano le nostra avventure, la trama, quindi la sceneggiatura del videogame, gli artworks, quindi i prodotti nati dalla mente e dal talento di artisti del disegno e così via. Non sono dunque questi i criteri secondo i quali bisogna approcciare un discorso che vede il “videogioco come arte”.
La vera difficoltà nel riuscire a giudicare il videogioco quale prodotto culturale ed artistico sta nella sua caratteristica di base, l’interazione con il fruitore. Da anni siamo invasi da coloro che si autodefiniscono artisti (o che vengono definiti tali da importanti critici d’arte, ed è meglio che non aggiunga altro altrimenti questa parentesi diventa un saggio per cui potermi querelare. Abbasso i vecchi critici e spazio alle nuove menti!!) che mettono al centro delle loro produzioni espressive l’interazione col visitatore, anche solo visuale: basti pensare alle cosiddette performance, o all’arte relazionale. Come per questi prodotti d’arte contemporanea, anche nel videogame l’interazione è vista come completamento dell’atto creativo, senza il quale l’opera non potrebbe nemmeno esistere; ma, a differenza di questi, il videogioco porta l’interazione con il suo fruitore ad un livello avanzato, mettendo in campo ciò che alcuni di noi spesso dimenticano, e cioè la soddisfazione nel godere del prodotto. Anche se vi sembra una cosa scontata, il divertimento e la soddisfazione da parte di colui che interagisce col prodotto sono fondamentali per il successo di un mezzo d’espressione o di un media. Se solo pensate a quante persone vanno in estasi di fronte ad un quadro la cui fase “interattiva” è data solo dall’osservazione, quella prodotta da un videogioco vi sembrerà davvero fuori di testa!
In coerenza con quanto vi ho appena detto, prenderò ad esempio due titoli, che per quanto simili nell’approccio con il videogiocatore, sono decisamente diversi nel risultato e nel giudizio. Parlo dell’acclamatissimo (e a ragione) Journey e del davvero inenarrabile Proteus. Senza stare qui a farvi riassunti e affidandomi al vostro buon senso nell’andarvi a cercare le info che vi interessano sui videogiochi in questione, vi dico che entrambi sono game sviluppati da team indipendenti ed entrambi invitano il giocatore all’interazione con il paesaggio e all’esplorazione dello stesso, entrambi teoricamente sono videogiochi. E ancora, sia Journey che Proteus fanno del minimalismo il loro punto di forza e tutti e due si inseriscono in un mercato fatto di videogiocatori che cercano l’altrove. La differenza fondamentale tra i due titoli è che mentre l’interazione che abbiamo con il nostro avatar in Journey attraversa il nostro intimo sentire, ci accompagna verso un viaggio che non è fatto solo di pixel ma anche di persone e soprattutto di riflessioni, proponendoci un approccio di certo più critico e lasciandoci “qualcosa” una volta concluso, Proteus, come detto, non può nemmeno essere narrato. È un titolo che apparentemente vuole farci riscoprire i nostri sensi basando la nostra esplorazione “sull’emozione data dalla musica”, ma finisce per diventare un mero esercizio e nemmeno di stile, nascondendosi dietro le parole gioco artistico, perlopiù non invogliando alcun giocatore all’esplorazione (io ho rincorso galline per 10 minuti prima di capire che in base a dove andavano c’era un suono diverso che comunque non serviva a nulla!) anzi, negano il principio di base su cui il gioco è nato. Perchè secondo me Journey si avvicina molto al concetto di intrattenimento d’arte? Perchè ha un perchè, ha uno scopo e propone un’interazione col giocatore senza la quale il titolo non avrebbe la sua conclusione: senza di noi il cerchio non si chiuderebbe.
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Facendo il punto su quanto detto, e riassumendo: il videogioco può essere giudicato quale prodotto d’arte e cultura se valutato secondo i giusti criteri e valutandolo quale “nuovo mezzo d’espressione” che unisce non solo il tempo, la dimensione e lo spazio, ma anche il coinvolgimento emotivo di chi ne fruisce.