La celebrazione delle piccole cose
Spider-Man: Homecoming arriva nelle sale, e Dio solo sa se l’attesa non è stata maniacale. Prima e fondamentale motivazione: la stravaganza della manovra adoperata da Sony, che ha riportato Spidey in casa Marvel quel tanto che basta da salvarlo dal flop. Chi abbia avuto l’idea, l’illuminazione o, se vogliamo, l’epifania, forse non lo sapremo mai. Non sapremo, insomma, se i meriti di Homecoming li dobbiamo a Marvel o a Sony, fatto sta che la paura che il ragno capitombolasse di nuovo era tanta, palpabile, praticamente appollaiata sulle nostre spalle come un avvoltoio. Poi buio in sala, l’amichevole theme dell’Uomo Ragno riarrangiato da Giacchino, e i primi 4 minuti di Spider-Man ci prendono subito alla sprovvista. Un montaggio amatoriale, atipico, ad opera dello stesso Peter Parker, del suo viaggio verso Berlino, del suo arrivo sul luogo che farà da scontro alla stra-chiacchierata “Civil War” di Cap e Iron Man. Tutto girato con il cellulare, senza enfasi supereroistica, ma con l’impagabile e incontenibile verve di un liceale che sta vivendo lo sballo di una vita. Homecoming comincia così, con la sua filosofia da teen movie, ma senza troppo giocare sui drammi adolescenziali, senza puntare troppo i riflettori sulle situazioni paradossali che proprio i teen movie sembrano tanto amare. Homecoming è un teen movie nella misura in cui racconta la storia di un ragazzo, Peter, che è un quindicenne con problemi, e soprattutto con poteri, a cui, come da archetipo, corrispondono anche tante responsabilità. Lo spoiler qui è che non c’è alcuno zio Ben a ricordargli il motto di una vita. Il passato è già andato, questo non è un film sulle origini, o meglio…
Homecoming
Ritornato a casa dopo la battaglia a Berlino, Peter vive attimi di intensa adrenalina. Aver incontrato i grandi, i miti, gli dei, ha lasciato sul ragazzo del Queens il desiderio di una vita da Vendicatore, complice il costume lasciatogli da Tony Stark, e la “promessa” di tornarlo a prendere quando questi sarà pronto… o se servirà. Peter passa una vita divisa a metà, tra i compiti a scuola, le selezioni nazionali per i Decathlon di scienza e le cottarelle tra i banchi che, da buon “sfigato”, restano sogni da guardare a distanza, con un certo imbarazzo, confessate in segreto al compagno di una vita: Ned (Jacob Batalon), nerd a tutto tondo ritagliato palesemente sul personaggio di Ganke, l’amico non di Spider-Man, ma di Miles Morales, la seconda versione “Ultimate” di Spidey creata in tandem dal duo Bendis/Pichelli. Alla fine di ogni giornata di scuola, schivando più o meno abilmente ogni proposta da parte del suo amico e del gruppo di studio per il Decathlon, Peter corre in strada per indossare la tuta dell’eroe, per aiutare gli altri, facendo spesso più danni che altro, nell’attesa che Iron Man bussi ancora una volta alla sua porta, nel desiderio inconfessabile di essere un eroe. Sarà proprio nel corso dell’ennesima ronda notturna, tra ladri di biciclette e poco più, che Peter si imbatterà nella sua occasione, scoprendo un gruppo di ladruncoli intenti a svaligiare una banca, armati con attrezzature futuristiche e letali che finiranno, nonostante la buona volontà di Peter, per combinare l’ennesimo disastro.
Messo all’angolo dal suo mito, Tony Stark, parcheggiato in uno stanzino da eroe di quartiere, Peter si incaricherà di indagare da solo, temendo che la città sia invasa da armi troppo potenti per essere controllate ed imbattendosi in un cattivo per antonomasia: l’Avvoltoio, interpretato da un Michael Keaton in stato di grazia, dall’espressione “eastwoddiana”, dall’ambizione smodata. Nel mentre si consumerà sul teatro dell’adolescenza la storia di un outsider, di un “nerd”, di un ragazzo desideroso di crescere ma incapace anche solo di fare i conti con il primo amore adolescenziale, o con il tradizionale ballo della scuola (che in gergo si chiama proprio “homecoming”). Il titolo, in tal senso, riveste un triplo significato. È il ritorno di Peter dalla vita da Vendicatore, il suo ritorno a casa nel Queens, che richiederà di affaccendarsi con una vita che è quanto mai distante da leggende e divinità. È il ballo della scuola, che nella sua necessità di interfacciarsi con gli altri, e con il gentil sesso, rappresenta una ben nota (e talvolta abusata) occasione per scontrarsi con il disagio adolescenziale. E infine, quasi a proclama per i fan, è il ritorno di Spider-Man al cinema. Un ritorno schietto, sincero, che vuole ridare lustro ad un eroe che forse sin troppo ne aveva perso a causa dei ben noti e gravosi problemi di licenza.
Continuare a raccontarvi la trama di Homecoming, nonostante essa sia piuttosto semplice e lineare, sarebbe imperdonabile. Homecoming non compie i voli pindarici di molti altri film Marvel, non si perde in spiegoni che ricostruiscano una certa continuty a uso e consumo dei più sprovveduti. Non fa nulla di questo ed anzi, come detto in premessa, non pretende neanche di essere un tipico film sulle origini. Si prende invece la briga di scorrere dall’inizio alla fine con invidiabile eleganza, complice un ritmo sostenuto e talvolta incalzante, in cui praticamente non si assiste ad alcun scivolone e in cui tutto ruota attorno a Spider-Man, alla sua adolescenza, lasciando che i comprimari facciano il loro lavoro, quando serve, ma senza ingombranti interferenze. I pregi sono fondamentalmente due, il primo quello di avere alle spalle un cast che sembra calzare a pennello i vestiti cucitigli addosso. Tom Holland, in particolare, ci offre certamente il miglior Peter Parker di sempre, vuoi per età anagrafica, vuoi per lo stile divertito e scanzonato che ricalca il personaggio nella sua forma migliore, complice una certa attenzione per la serie Ultimate, che così bene ha aggiornato un certo modo di fare di Parker, riportandolo al suo piacevole status di goffissimo, ma funzionale, eroe alle prime armi. Holland convince, con e senza maschera, e riesce a risultare sempre a suo agio tanto nelle situazioni più stupide e caciarone (in uno stile cinematografico che talvolta sembra quasi ricalcare il già iconico Deadpool) sia in quelle più serie, profonde, quando posato il costume il giovane Parker deve fare i conti con se stesso, e con le proprie responsabilità. Un esempio banale sta nel vederlo muoversi. Eravamo abituati, anche nella versione cinematografica “amazing“, ad uno Spider-Man a proprio agio con se stesso, con la portata dei suoi poteri. Holland ci offre invece un personaggio del tutto incapace di fronteggiare le sfide più ardue, che non ha dimestichezza con le proprie capacità, e che talvolta non sembra neanche in grado di fare quello che ci si aspetterebbe che Spider-Man facesse. Veder combatter QUESTO Spider-Man è, in tal senso, una gioia per gli occhi. Il personaggio si muove in modo confuso, scimmiotta pose da super eroe, è incapace di seguire una pista, è insomma autenticamente e genuinamente incapace perché è ancora all’inizio del suo cammino e non ha che il potenziale per essere l’icona tanto amata da New York e non solo.
Basterebbe già solo questo, ma poi scopri che Homecoming offre anche tanti tratti che sembravano essersi persi in vecchie pagine dei fumetti. È uno Spider-Man, quello di questo film, che ritorna alla tipica tensione familiare tanto cara alla Marvel anni ’60, che archivia il più iconico supereroismo in nome del dogma “supereroi con superproblemi”. Problemi semplici, adolescenziali, “teen”, ma non per questo immeritevoli di attenzione e, soprattutto, non per questo mal trasposti da una pellicola che più che presentare le origini, cerca di dare al personaggio lo spazio per fare i conti con sé, con il proprio ruolo, con la propria incapacità di calzare, come vorrebbe, il costume dell’eroe. Siamo lontanissimi, per dire, dai disagi dello Spider-Man rinunciatario di Raimi. Qui è ancora troppo presto per fare i conti con l’odio del mondo o con le notti insonni di Mary Jane. Qui c’è solo Peter, alle prese con i suoi conflitti personali, ed il punto è che il modo con cui essi sono trasposti, raccontati e amalgamati con le gesta supereroistiche è funzionale e divertente. Appagante.
A contrapporsi al Ragno, nel primo ruolo del personaggio sul grande schermo, un Avvoltoio come mai se ne erano visti o apprezzati, che si distacca dal personaggio più recentemente visto nei fumetti, e sceglie un attore iconico, importante, per certi versi potenzialmente “ingombrante” come Keaton, in verità mai così convincente, se non dai tempi di Birdman. Carismatico, affascinante, maturo, l’Avvoltoio ci offre, senza mezze misure, forse il primo, vero, villain degno di questo nome in un film Marvel, con in più l’impagabile pregio di avere uno scopo e con esso la forza, la determinazione e, per certi versi, la disperazione sufficienti per perseguirlo. Eppure l’Avvoltoio non è un semplice burattino, non è un prodotto di fiction che deve semplicemente perseguire lo scopo del male, è un personaggio profondo, che come Spider-Man vive un conflittuale rapporto di dipendenza e odio verso Tony Stark, seppur con quest’ultimo non condividerà neanche un attimo su schermo. Perché questo non è un film su Stark, o su Iron Man, che viene sapientemente messo da parte e lasciato al suo posto nelle vesti di mentore e, inaspettatamente, bussola per il giovane Parker. Iron Man fa la sua comparsa, ma quando serve, quando occorre rimettere a posto l’ambizione di Peter. Il resto è demandato direttamente al rapporto di conflitto con l’Avvoltoio, e da quel che Peter imparerà dallo scontro.
Si parla di Spider-man e dell’Avvoltoio, lasciando che siano loro, e loro soltanto a dividersi la scena, e donando al rapporto tra i due una sorta di complementarità che li rende, di fatto, due volti di una stessa medaglia. Entrambi vittime di una crisi personale che in qualche modo ne ha alterato lo status, il pensiero, il modo di fare, seppur mantenendo intatte le loro peculiarità, senza cercare forzature, senza permeare tutto con insensato e stucchevole buonismo. Spider-man e l’Avvoltoio vivono questa similitudine, opportunamente divisa dalla linea che c’è tra il bene e il male, fronteggiando un momento di perdita di se stessi con modalità diverse, tali da lasciare ai personaggi la possibilità di intraprendere il loro cammino. Fino alla fine. La bellezza è forse proprio la semplicità, l’assoluta assenza, una volta tanto, di problematiche al di fuori di una scala umanamente comprensibile. Non ci sono minacce divine o aliene, non ci sono super-robot, ci sono solo i problemi normali degli esseri umani, dal sentirsi inadeguati al terrore di finire per strada, dall’incapacità di relazionarsi agli altri al timore di non essere auto-sufficienti. Il tutto in una cornice supereroistica, fatta di esplosioni, salvataggi all’ultimo istante, battaglie violente e immancabili colpi di scena. In un tavoliere in cui ognuno recita la propria parte, lasciando che eroe e malvagio si contendano il protagonismo che meritano, e tutto il resto sia di funzionale contorno.
Spider-Man Homecoming, insomma, smonta innanzitutto i canoni e le abitudini dei film Marvel e sceglie di perdere una qual certa teatralità in favore di una più funzionale e apprezzabile semplicità. Una scelta ponderata, che rende il film godibile, piacevole e mai noioso e che, soprattutto, dà ai personaggi che la meritano la dignità di cui hanno bisogno. Non un palliativo, non un contentino nell’attesa che lo “spider-verse” cinematografico faccia FINALMENTE il suo corso, ma una produzione con tutti i crismi che, pur facendo parte del canone degli Avengers, sceglie di prenderne le distanze in virtù di una strada più genuina, sincera, per certi versi “popolare”, lasciando che il personaggio competa, innanzitutto, con i problemi che gli sono più congeniali e che, prima di diventare un nuovo simbolo del supereroismo, sia semplicemente “un amichevole Spider-Man di quartiere”. E non è poco. A ciò si aggiunge poi lo spettacolo tipico di un Marvel movie, fatto di chiassose citazioni, riferimenti assolutamente pop ed anche un certo auto-reverenzialismo, che non perde l’occasione di ricordare con affetto alcuni attimi, alcuni momenti, del genuino cinema di Raimi, con situazioni che apertamente vi si rifanno e che anzi talvolta vengono richiamate dagli stessi personaggi. Su tutti, proprio l’Avvoltoio, in certe espressioni, in certe battute di lucida follia, nella presenza tecnologica e al contempo demoniaca della sua armatura, gioca con le identità rimandandoci, con i ricordi, alla straordinaria e spaventosa interpretazione del Norman Osborn di Willem Dafoe.
Unica pecca, a voler essere onesti, alcune mancanze in termini di cast, che portano a situazioni un po’ deludenti. Shocker, per dirne una, occupa nell’economia generale un ruolo del tutto marginale, tanto che non ci sentiamo neanche di definirlo un vero e proprio villain. Flash Thompson, allo stesso modo, perde ogni accezione del personaggio originale, trasformandosi in un odiosissimo ragazzino ricco qualunque, perdendo anche ogni riferimento alla carriera sportiva e, volendo, alla sua archetipica ottusagine. Sono due esempi celebri, che forse brillano particolarmente in senso negativo, ma per fortuna l’equilibrio del cast e della pellicola in generale è tanto buono, che il fastidio sarà archiviato rapidamente, troppo presi come sarete da tutto il resto del film.
Prima di chiudere una postilla: le scene post-credit sono 2 e, credeteci, la seconda è veramente geniale.
Verdetto
Spider-Man: Homecoming è un film che sa essere eccellente per molti aspetti, che per altri segna qualche lieve zoppicamento ma che, in linea di massima, non risulta mai brutto o stancante per lo spettatore. Il suo pregio è certamente quello di mettere in scena personaggi carismatici e ben scritti, e di lasciare a Spider-Man tutto lo spazio di cui il personaggio ha bisogno. A differenza delle premesse, che sembravano riservare a Iron Man un ruolo ben più ingombrante, Homecoming è invece un film genuinamente basato su Peter Parker, sui problemi della sua adolescenza, sul dogma che un piccolo eroe può avere problemi anche nel suo piccolo mondo, problemi che in ogni caso vanno fronteggiati e di cui qualcuno deve prendersi la responsabilità, non importa se la sfida è insormontabile. Tralasciando la genesi, mettendo da parte ogni riferimento alla celebre quote per cui “Da grandi poteri etc.”, questo Spider-Man cerca di capire da sé quanto sia importante assumersi certe responsabilità, e quanto ancora prima di ciò sia importante tenere i piedi per terra, lasciando che attorno alla morale, semplice ma mai stucchevole, esploda in un mix dinamico e appagante il resto del film, capace di mettere in mostra anche un aspetto per certi versi inedito del ragno cinematografico (e non di Peter): la sua goffaggine, la sua incapacità, la sua adattiva sperimentazione del ruolo di eroe. Ispirato dai grandi Vendicatori, ma confinato nel Queens, come un Bruce Springsteen nazional-popolare (il riferimento non è casuale), Spider-Man è un eroe della gente, che per la gente si impegna, scende in strada, e che in nome della gente resta fedele a se stesso. Marvel e Sony scelgono allora di non rinarrare il mito delle origini, lasciandolo sapientemente da parte in un trascorso mai visto ma che, per forza di cose, per lo spettatore è ovvio, e in fondo è bene così. Quel che vedrete, dunque, è forse il miglior Spider-Man di sempre, ma è anche il miglior film su Peter Parker, che si concentra sul personaggio, che ne analizza le difficoltà, che ne presenta le debolezze. Poi, attorno, ci sono le botte tra i supereroi. Non così importanti, ma sempre graditissime.