Un detective e i suoi incubi
Qualche anno fa Stephen King sorprese tutti con un romanzo stranamente diverso da quelli con cui era solito cimentarsi: Mr. Mercedes era una crime story su un poliziotto in pensione braccato da un folle omicidio. Il romanzo, che arrivò sugli scaffali nel 2014, fu un buon successo e fece scoprire un ulteriore aspetto della scrittura poliedrica di King, che ricamò una trama articolata e piena di personaggi kinghiani senza però sfociare nel suo “classico” horror soprannaturale cui siamo abituati. Con gli anni che passano c’è sempre qualcuno che ha la geniale idea di trasporre un libro in celluloide (vedi anche l’attuale film della Torre Nera), anche se solo televisiva, e come volevasi dimostrare, anche Mr. Meredes è caduto in questa spirale onnivora di conversioni. Viene da sé la domanda cui dobbiamo rispondere: com’è andata stavolta? È il solito adattamento pezzotto? O c’è dell’anima?
Seguiteci per scoprirlo.
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Oh Lord, won’t you buy me a Mercedes Benz?
Il telefilm si apre esattamente come il romanzo, con la terrificante scena dei disoccupati in attesa che si apra la Fiera del Lavoro al City Center. Chiunque abbia letto il libro sa benissimo di quale violenza allucinante stiamo parlando: nel bel mezzo della notte, poco dopo le quattro, con il sole che ancora si deve alzare all’orizzonte, una Mercedes SL500 si lancia a tutta velocità sulla folla in attesa. Nell’impietosa messa in scena diretta da Jack Bender, la carneficina è un orrore fatto di ossa rotte e sangue, corpi deformati e urla di terrore, che colpisce lo spettatore come un’auto in corsa, lasciandolo quasi senza fiato. Sono pochi secondi di pura e semplice follia omicida che reclamano tutta l’attenzione e lasciano ansimanti a bocca aperta. Non è solo per la violenza, per il gore, per l’ineluttabilità del momento, ma è per l’insieme di tutte queste cose più una certa maestria nel tenere lo spettatore al centro di tutto, frastornandolo senza pietà. Sono forse i primi cinque minuti di uno show più belli che abbiamo mai visto negli ultimi anni. C’è un sapore quasi carpenteriano in alcuni passaggi, come quello della maschera e dei respiri ansimanti che ricordano tanto il Mike Meyer di molti anni fa, e poi all’improvviso arrivano tutti i ricordi dei fatti di cronaca e delle stragi che abbiamo sentito negli ultimi mesi. Emotivamente, la scena è fortissima e colpisce duro senza risparmiare niente.
Ecco a voi Mr. Mercedes, l’assassino.
Il protagonista della storia è invece Bill Hodges, interpretato da un intenso e convincente Brendan Gleeson, un poliziotto in pensione alle soglie della terza età. Come ben sappiamo noi che abbiamo letto migliaia di romanzi neri, ogni poliziotto ha un caso maledetto, un assassino sfuggente che lo perseguita nei sogni come un tarlo infernale e per Hodges quel mostro dai contorni indefiniti è proprio Mr. Mercedes, come i giornalisti hanno ribattezzato l’assassino del City Center. In realtà, dopo l’inizio spumeggiante e al fulmicotone, il telefilm si prende il tempo che gli serve per mostrare la prima parte del cast e dei personaggi. Con un incedere lento, quasi strascicato, la penna di David Kelley tratteggia i contorni spigolosi di Hodges, con tutta la disperazione che merita il suo personaggio: un uomo che insieme al distintivo e alle manette ha perso anche una ragione di vita, e si lascia morire un momento dopo l’altro, affondando inesorabilmente dentro le sabbie mobili della depressione, annaspando alla ricerca di aria che non trova.
Ciò che gli resta è solo la sua ossessione, una macchina semi-distrutta coperta di sangue a cui ancora non ha saputo assegnare un pilota. La discesa nel proprio inferno fatto di alcool e paranoia non è altro che un terreno di coltura velenoso su cui Mr. Mercedes, alias Brady Hartfield (non c’è alcuno spoiler, please, son cose che si sanno al minuto 8 del telefilm), decide di fare leva per giocare una partita a scacchi insanguinata, un gioco al massacro in cui la sola vittima è proprio Hodges. Allo stesso modo, con una perizia doverosa e senza peli sulla lingua, Brady è mostrato in tutta la sua lucida follia, affidato al volto di Harry Treadway, bravissimo nel suo essere schivo e focalizzato sul disprezzo degli esseri umani. La camera non risparmia niente, neanche il disgustoso rapporto incestuoso con la madre Deborah, interpretata da una sporca e maledetta Kelly Linch.
Sequenza dopo sequenza, i due protagonisti di questo dramma prendono forma, emergendo dal loro mondo per entrare nel nostro e come per magia diventano familiari, quasi li conoscessimo da sempre, si lasciano amare e odiare allo stesso tempo: da una parte un uomo anziano che non riesce a trovare una via d’uscita, incatenato tra la sua paranoia e la sua ossessione, e dall’altra un ragazzo schiavo della sua pazzia, perfettamente consapevole del male che provoca e dedicatosi a farne ancora dell’altro. E poi un video, pure sintesi psichedelica del terrore, approda sul portatile scassato dell’ex Detective e lo sguardo atterrito e il respiro affannoso di Hodges dichiarano che la guerra con Mr. Mercedes non è ancora chiusa.
Prove that you love me and buy the next round
David Kelley si è preso una bella responsabilità, visto che di opere cinematografiche e televisive degne di questo nome tratte dai romanzi di Stephen King ce ne sono davvero poche. Ma l’autore di Ally McBeal non si è mostrato di certo intimorito, riuscendo a trovare, almeno in questa prima puntata, un ottimo feeling con il modo di raccontare di King, tenendo presente molti dei suoi canoni. La middle class americana e l’orrore nascosto tra le mura domestiche e nelle strade ben illuminate dei neighbourhood di Bridgton, Ohio, emerge in mille piccolezze, come i siparietti allucinanti tra Hodges e la sua vicina di casa. Anche i retroscena della vita di Brady tratteggiano una società che ha deciso di cannibalizzare se stessa, incapace di dare una via d’uscita ai giovani, finendo per alimentare i mostri all’interno dell’animo umano, fino all’autodistruzione. Kelley è stato bravissimo nel voler mostrare questi temi così cari a King, ma è stato ancor più bravo nel non voler scimmiottare le parole del Maestro, bensì usando un linguaggio tutto suo, con una sinergia quasi perfetta con il regista Jack Bender, che tra l’altro ha firmato tanti episodi di Lost, Game of thrones e altre serie di un certo livello.
Tutte le sequenze, anche le più puerili e le più semplici, sono perfettamente integrate in un contesto narrativo e di linguaggio che le rendono uniche e soprattutto autonome. La storia si snoda con un ritmo prestabilito senza la necessità di virate o accelerazioni insensate, e tutto sembra essere sotto controllo: è questa la sensazione, è come se le cose accadono perché così devono accadere, e non perché qualcun altro ha deciso per noi. La spontaneità dell’intreccio, la costruzione delle scene e la descrizione implicita della (odiosa) psicologia dei personaggi è amalgamata in un disegno fatto di immagini e suoni perfettamente integrati.
Tenetevi stretti perché stiamo per dire qualcosa che forse non ripeteremo mai più, e che sicuramente ci rimangeremo alla fine della stagione, ma davvero, man mano che vedevamo questo pilota, senza neanche accorgercene abbiamo perso di vista il libro per lasciarci guidare solo dalle immagini. Abbiamo smesso di fare i paragoni per vedere cosa era cambiato e come (sì, il video minatorio al posto del messaggio è solo un esempio) e ci siamo goduti il telefilm in santa pace. E questa, amici lettori e lettrici, è forse la più grande vittoria che uno showrunner e il suo regista possono conquistare, specie quando si tratta di misurarsi con un calibro così grosso come Stephen King.
Gli attori, alla stessa maniera, hanno dato un’ottima prova di sé. Gleeson, dopo aver mollato i gesti di Moody di Harry Potter, veste i panni di Hodges con una naturalezza che ha del soprannaturale: la sua mimica, il suo modo di comportarsi in mezzo alle persone, il suo rapporto con i colleghi tratteggiano un uomo in pensione che non vuole andare in pensione. Non è solo depressione, non è solo mancanza della routine del lavoro, della gestualità dell’ufficio e della professione a spingere Hodges verso le oscure acque della disperazione. È più che altro il fatto che nonostante la società lo reputi pronto al riposo, dentro di sé il detective sente ancora la necessità di fare qualcosa, come se non fosse un uomo finito. E tutto questo traspare nei mille modi in cui Gleeson si muove sul set, occupa alcuni spazi e ne lascia vuoti altri. Di contro, il suo antagonista è l’esatto contrario, perfettamente interpretato da un Treadway dallo sguardo folle e le movenze circospette di un predatore mimetizzato tra le prede, un devastatore pronto ad agire. Anche la sua vita privata, alterata e inammissibile, è infangata dal rapporto con la madre, interpretata da Kelly Linch, sporca e disgustosa quanto basta per amarla e odiarla allo stesso tempo.
Cosa ci è piaciuto?
Tutto. Questo primo episodio di Mr. Mercedes ci ha stregati, sotto tutti gli aspetti, grazie a una perfetta e precisa messa in scena, che non è una pedissequa rappresentazione delle parole scritte da Stephen King, ma una perfetta sintonia con il significato che quelle parole rappresentano all’interno dell’opera.
Cosa non ci è piaciuto?
Niente. Possiamo immaginare che, per alcuni fan, proprio quanto appena detto rappresenti un ostacolo. Ma fidatevi, lo è solo in teoria. Fidatevi, e non ve ne pentirete.
Continueremo a guardarlo?
Certo, anzi, per come sono iniziate le cose, aspetteremo con ansia ogni settimana che venga messo in onda l’episodio, e non fa niente che sappiamo come andrà a finire, perché abbiamo divorato il libro, non c’entra niente che vivremo tutta la stagione con un grande enorme spoiler di Damocle sulla testa, questo telefilm ce lo godremo dal primo all’ultimo, perché è sempre la storia, non chi la racconta.