Qui galleggia tutto
Il compito di Andrés Muschietti, regista argentino noto per l’horror La Madre, è durissimo: portare sul grande schermo IT di Stephen King.
Dopo la miniserie televisiva del 1990, arriva così finalmente una trasposizione cinematografica. Ma possiamo davvero dire finalmente? Il confronto tra due medium tanto diversi è sempre un tema dibattuto e che lascia, fondamentalmente, il tempo che trova, eppure ci sono casi in cui il paragone è inevitabile e le conseguenze possono essere disastrose.
Le vicende narrate appartengono al primo blocco narrativo, quello in cui i Perdenti sono dei ragazzini ed il film inizia immediatamente con la scomparsa del piccolo Georgie, fratello minore di Bill, e con la prima terribile apparizione del clown Pennywhise.
Nel romanzo la storia dei giovani Loser prendeva forma nel 1957, mentre Muschietti sceglie di rendersi la vita più facile ed ambientarla nel 1988. Una differenza di circa 30 anni che ben si spiega con molte esigenze tecniche e narrative, soprattutto in vista di un sequel che vedrà trasposta la seconda parte del romanzo, con i giovani che diventano adulti e per la quale, appunto, ci sarà un’ambientazione attuale.
Non è, però, soltanto questo. Gli anni a cavallo tra ’80 e ’90 sono ormai un porto sicuro della narrazione filmica e cinematografica, e Muschietti e la sua troupe sanno bene come addolcirsi il proprio pubblico, ammiccando a pellicole come I Goonies (ma anche a Stand by me, nonostante il differente arco temporale) o a prodotti televisivi ben più recenti ma la cui impronta è tremendamente riconoscibile, come Stranger Things, di cui addirittura ci si prende la briga di recuperare un attore, ovvero Finn Wolfhard (qui Richie, Mike nella serie).
Togliere i piedi dal calco e camminare autonomamente a questo punto non è impresa facile, ma Muschietti prova a mettere tutto se stesso e la sua interpretazione kinghiana per rendere autentico il proprio film.
Per fare ciò, il regista si prende tutto il tempo che gli serve, facendoci assaporare un po’ di Pennywhise nelle prime battute, con una scena horror pulp molto forte ed in grado di farci vibrare l’anima e pensare quasi che IT sia tornato davvero, per poi acquietarsi, mettersi seduto a disegnare i contorni di una storia e di un gruppo di personaggi articolato e sfaccettato, in cui lo stesso Muschietti sembra perdersi un po’. Non ne beneficia di sicuro il ritmo, a tratti lento e recuperato da sporadici picchi di tensione dovuti all’essenza del genere.
In questa complessità delle forme si attesta il Clown IT, quello su cui pubblico e critica si sono tanto dibattuti sin dalle prime immagini circolate in rete.
Com’è, dunque, questo Pennywhise? Il pagliaccio di Bill Skarsgård è troppo condizionato dalla gestione che ne fa il regista, e ne esce sostanzialmente stordito. Eppure la sua interpretazione si divide a metà: in una prima parte riesce davvero a farci cogliere le tipiche sfumature della paura kinghiana, con un’intensità poderosa e uno sguardo orrifico, supportato da un make-up strabiliante e da tutti gli effetti del caso. Proseguendo con la storia però il percorso dell’IT di Skarsgard nella nostra mente è lo stesso, e forse persino più accelerato, che intraprende in quella dei nostri cari Perdenti, e più lo vediamo, meno paura abbiamo.
Il vigore e l’efficacia iniziale, quella mostruosità e quegli attimi di raggelante intensità che avevano annichilito Georgie lasciano il posto a quella consapevolezza adulta di aver a che fare con un pagliaccio truccato e posticcio, finendo per raffreddare i nostri animi e cancellare tutte le nostre paure. Un peccato davvero, perché a livello visivo e aiutato dagli effetti speciali di cui il regista ha potuto disporre, l’IT di Skarsgard è mostruoso e rimane tale in penombra, quando la sua comparsa è centellinata e donataci a piccole dosi. A questo punto ci vien da dire che, paradossalmente, se Muschietti l’avesse gestito con ancor maggiore oculatezza avrebbe ottenuto un risultato migliore.
Ma per rappresentare le nostre paure e quelle dei protagonisti, il cineasta non si serve solamente di IT in “carne ed ossa”, bensì di un contesto orrifico che in più passaggi riesce davvero bene. Dalle sfumature splatter e da un nauseabondo tripudio sanguigno, si passa rapidamente all’orrore più intimo e psicologico, fino a quello violento ed improvviso che fa – seppur raramente – sobbalzare dalla poltrona. Sotto questo aspetto la paura è amministrata bene, a maggior ragione del fatto che IT, nella sua visione a tutto tondo dell’opera, non è solamente un horror e soprattutto non è un horror tradizionale e in qualche modo sterile. IT è tante cose, tra cui il rito metaforico ed anche effettivo del passaggio all’età adulta, con la paura (anche qui) di crescere e forse persino di abbandonare le debolezze dell’infanzia, poiché non più tollerate da una questione anagrafica. È anche per questo che Muschietti si prende il suo tempo, e in questo frangente riesce a regalarci la giusta trasposizione di tale passaggio, tramite meccaniche molto semplici e – come abbiamo detto – persino un po’ abusate e ripescate dai classici del passato, eppure efficienti e funzionali.
Lo aiuta in questo un cast di abili ragazzini, capitanati dall’ottimo Jaeden Lieberher ma soprattutto da Sophia Lillis, che si carica sulle spalle tutto il peso della quota rosa del film. A tal proposito segnaliamo l’incredibile personaggio della madre di Eddie, che a dispetto dello scarsissimo minutaggio rappresenta l’emblema della figura kinghiana, e il cui sguardo ci fa subito venire in mente quello della Annie Wilkes (Kathy Bates) di Misery non deve morire.
In definitiva, il peso della mastodontica opera di King si fa sentire e si farebbe sentire su qualunque regista e su qualunque trasposizione. Muschietti lo sa e saltella, anzi galleggia, da un lato all’altro del ring, giocando con le corde per evitare di accusare subito il colpo del KO, riuscendo persino ad assestare qualche gancio, ma perdendo inevitabilmente ai punti. Lo sapeva e lo sappiamo tutti, ed è per questo che, armati di tanta buona volontà, dobbiamo apprezzare gli sforzi e cercare di vedere il suo IT per quello che è, ovvero un buon film horror. Sperando magari in un cast eccezionale per il sequel.
Verdetto:
Il compito di Andres Muschietti è durissimo: portare sul grande schermo IT di Stephen King. Lo fa partendo da un porto sicuro, ambientando le vicende – che appartengono al primo blocco narrativo – nel 1988 anziché nel 1957, aprendosi tra l’altro la strada per un sequel.
Il suo film ammicca strutturalmente a molti classici del passato, non necessariamente del genere horror ma in cui si respira quell’ormai abusata nostalgia degli anni ’80, come I Goonies per citarne uno, e pescando anche dal presente come dalla serie Stranger Things. Per tutto questo Muschietti ha bisogno del suo tempo e se lo prende, rallentando tuttavia troppo il ritmo, così come rallenta e gestisce accuratamente le apparizioni di Pennywhise (interpretato da Bill Skarsgard), che però perde d’intensità col passare del tempo e più lo vediamo meno ci spaventa. Ad ogni modo per fomentare ed accrescere le nostre paure Muschietti si serve anche dei canoni dell’horror più tradizionale, amministrando poi bene il passaggio alle meccaniche kinghiane del racconto, come quelle del gruppo dei Perdenti e del loro passaggio all’età adulta.
In definitiva questo IT è un buon film horror, che però non può non sentire il peso e la pressione dell’opera di King, galleggiando così troppo spesso, e lasciando scorrere lentamente le lancette.