Ars Scribendi – Dodicesima puntata

L’horror

Il terzo sottogenere della narrativa fantastica, dopo fantascienza e fantasy, è l’horror. Anche questo, come i suoi cugini, ha a sua volta decine di sottogeneri. Si va da quello più psicologico e ansiolitico, fatto di momenti di forte tensione alternata a lunghe pause, a quello che esplode nel pulp vero e proprio, con schizzi di sangue e smembramenti vari.

La chiave di volta dell’horror sono le nostre paure: ogni fobia, da quella di restare seppelliti vivi al terrore generalizzato per ragni e serpenti può essere utilizzata come elemento centrale di una storia horror.

Si parte quindi sempre da una paura. Metterne più di una sarebbe dispersivo e quindi, se volete scrivere un buon horror, concentratevi su una singola fobia. La prima parte di un horror è quasi sempre preparatoria, ovvero serve a creare la tensione, a caricare la molla. Si presentano i personaggi e si cerca di caratterizzarli molto bene. Nell’horror, quello che fa più paura è ciò che avviene alle persone, quindi dovete far innamorare il lettore di un po’ tutti i personaggi, non solo dei protagonisti, soprattutto di quelli che sacrificherete per primi. Far ammazzare uno che sta antipatico non interessa a nessuno. La prima parte del romanzo quindi è fondamentale. In un horror ogni personaggio devo avere specifiche caratteristiche, essere ben delineato, anche se è secondario e magari muore quasi subito. Spesso ci sono più storie che si intrecciano e altrettanto spesso ogni personaggio può avere un suo segreto o un passato che si rivelerà nel corso della storia. Quindi costruite bene anche il pregresso dei vari personaggi.

Questa fase può essere più o meno lunga a seconda della situazione. Più sono i personaggi da uccidere e più dettagliata e lunga è questa prima fase, a meno che non vogliate concentrarvi su pochi personaggi all’interno di una situazione di degenerazione totale, come spesso succede con epidemie, zombie e altri mostri simili.

Possiamo ragionare su diversi schemi. Prendiamo tre assi di riferimento: quello relativo ai personaggi, quello relativo all’ambientazione e quello relativo alla minaccia.

Consideriamo l’asse relativo ai personaggi.

La prima struttura, la più semplice, ha un solo personaggio o due, o comunque un nucleo ristretto, che si trova confinato in una situazione di tensione continua. In questo caso la parte iniziale è breve e si entra subito in quella claustrofobica e ansiolitica. Lo schema è analogo a quello di certi thriller come “Panic Room”, solo che in un horror la situazione è molto più drammatica e spesso l’elemento ostile ha caratteristiche sovrannaturali, aliene o demoniache, più che umane.

Un secondo schema è quello che vede un gruppo più o meno composito essere sterminato un individuo alla volta fino a che i sopravvissuti si salvano in extremis o non si salvano affatto. Anche qui, si tratta di uno schema usato anche in altri generi, come la fantascienza. Basti pensare ad “Alien”, a “Terminator” o al recente “Life”.

Il terzo schema è quello della catastrofe all’interno della quale la storia si concentra su un piccolo gruppo di persone che tentano disperatamente di sopravvivere. Schemi di questo tipo sono tipici delle storie post-apocalittiche, di quelle basate su una pandemia o lo svilupparsi di una minaccia globale, come nel caso delle serie “The Walking Dead” o “The Strain”. Spesso c’è un viaggio o la ricerca di una terra promessa o di un’arma che potrà salvarli.

Parallelamente a questa prospettiva, c’è quella che prende in considerazione l’ambientazione.

Anche qui si può partire da un’ambientazione molto circoscritta, che va da una singola stanza all’immancabile casa, stregata o comunque caratterizzata da una qualche presenza oscura, a un’ambiente più ampio ma dal quale non c’è comunque scampo, come un’isola, un villaggio sperduto o isolato, magari per ragioni climatiche, fino ad arrivare a una situazione che coinvolge l’intero pianeta, ancora una volta in ambito catastrofistico.

E veniamo alle minacce. Qui c’è solo l’imbarazzo della scelta. Ci muoviamo in genere su tre piani: quello umano, quello spiritistico e demoniaco e quello del mostro. In quello umano rientrano tutti i vari psicopatici. In questo caso non ci troviamo tanto di fronte all’atto di uccidere, quanto a quello di torturare, sia psicologicamente che fisicamente, le vittime. La morte spesso è seguita da mutilazione o da altri macabri rituali. L’intera storia potrebbe riguardare, ad esempio, la prigionia e la tortura del protagonista da parte di una persona la cui identità è più o meno ben definita. Si possono ovviamente aggiungere dei compagni di prigionia che finiscano inevitabilmente massacrati per accentuare il senso di tensione del protagonista.

Poi c’è l’horror in cui la minaccia è una qualche presenza occulta: un demone, un fantasma, un poltergeist, insomma un essere che appartiene al sovrannaturale. La creatura in questione potrebbe rivelarsi direttamente o prendere possesso di altri, esseri viventi o oggetti inanimati, come appunto una casa o una macchina.

Infine ci sono i mostri: da quelli più tradizionali, come i vampiri, i lupi mannari, gli zombie, a quelli più originali, di origine terrestre o aliena, come ne “La Cosa”. Naturalmente ci sono anche i mostri di natura animale, come i ragni giganti o bestie mutanti di vario genere.

Ora, se nel cinema, oggi, la maggior parte della tensione la si ottiene con la colonna sonora e con gli effetti speciali, in un romanzo deve essere la storia a creare la tensione. Non c’è una musica di sottofondo a creare la sensazione che stia per succedere qualcosa ma solo le parole dell’autore. Le parole, tuttavia, sono anch’esse una forma di musica, quindi la scelta di un termine piuttosto che un altro o il modo in cui si tagliano le frasi può compensare la mancanza di un audio capace di sviluppare nel lettore un senso di attesa spasmodica.

Un’horror è sempre un susseguirsi di momenti di pausa, lunghi, necessari a creare il giusto livello di tensione, ed eventi rapidi, forti, definitivi, che la fanno scaricare in un atto violento.

In un romanzo, l’elemento emotivo è fondamentale. Non potendo sfruttare le immagini o i suoni, bisogna creare nel lettore le condizioni perché li possa immaginare. Un sistema è quello di portarlo in un’apparente “comfort zone” per poi destabilizzarlo totalmente. Soprattutto bisogna sorprenderlo.

E qui abbiamo il problema più grande: come si fa a sorprendere un lettore che ormai ha letto e visto di tutto? Su cosa si gioca? È chiaro che bisogna uscire dagli schemi.

Un horror sofisticato, eccellente sotto tutti i punti di vista e certamente fuori dagli schemi, è “Sesto Senso”. Qui il senso di orrore viene sviluppato in sottofondo, uno strato per volta. Questo meccanismo è molto utile in un romanzo, dove la componente di immaginazione del lettore è rilevante rispetto a quella che abbiamo in uno spettatore di un film. Un buon romanzo horror deve far paura al lettore per quello che lui o lei immaginano succederà, più che per quello che succederà davvero. In pratica, dovete far sì che il lettore si spaventi da solo. Fategli immaginare il peggio ma, attenzione, non deludetelo poi, perché se il romanzo si sposta su toni più bassi di quello che ha immaginato, si sentirà inappagato.

Se volete scrivere un romanzo horror ci sono alcuni libri che dovete assolutamente leggere. Il primo è un classico, ma rimane comunque un riferimento importante: “L’Isola del Dottor Moreau” di Herbert G. Wells. Si tratta di una variante abbastanza sofisticata del tema dello “scienziato pazzo”, uno dei modelli horror più popolari. Allo stesso genere appartiene “Frankenstein, o il Moderno Prometeo” di Mary Shelley. Dimenticatevi i film e leggete questi due romanzi. Ne vale la pena, per quanto abbiano già un paio di secoli o poco meno.

Rimanendo sull’antico, c’è lo splendido “Dracula” di Bram Stoker. I vampiri sono un classico e sono stati rivisitati in mille salse diverse, ma questo Dracula mantiene tutta la sua originalità e freschezza nonostante tutto ciò che è stato scritto dopo.

E veniamo al tema della casa infestata: “L’Incubo di Hill House” di Shirley Jackson è degli anni Cinquanta, e quindi più moderno, ma ben rappresenta il sottogenere.

Potremmo continuare ancora con singoli titoli, ma ci sono tre autori per i quali non me la sento di consigliare una sola opera, perché troppe sono quelle valide. Iniziamo dal più vecchio: Edgar Allan Poe. I suoi racconti sono semplicemente dei capolavori, perché se è difficile creare tensione in un romanzo, lo è altrettanto se non di più farlo in un racconto, dove lo spazio è poco e bisogna rapidamente andare al punto. Sempre sulla falsariga dei racconti, abbiamo un altro grande in Howard Phillips Lovecraft, che tuttavia, al contrario di Poe, che ha scritto solo due romanzi e molte altre opere non legate all’orrore, ha pubblicato anche diverse storie lunghe. Fra i suoi romanzi forse il migliore è “Alle montagne della follia”. Si tratta del precursore dei vari racconti su mondi perduti o esplorazioni nell’Artico o nell’Antartico dove si cela in agguato un orrore antico o alieno. Di nuovo, torna alla mente “La cosa da un altro mondo” di John W. Campbell, dal quale fu tratto il famoso film di John Carpenter.

Il terzo autore è contemporaneo ma altrettanto famoso e non ha bisogno di presentazioni: Stephen King. Molti sono i romanzi di questo autore, alcuni resi famosi da film altrettanto popolari, non ultimo il celeberrimo “IT”, ma in questo caso consiglierei di leggere “Pet Sematary”, un romanzo che non esiterei a definire “crudele”.

Detto questo, ovvero che si impara a scrivere solo leggendo molto, cosa che non vale certo solo per i romanzi di horror, torniamo alla nostra storia. Quali sono gli elementi da introdurre nel romanzo per creare tensione?

Innanzi tutto il mistero: ciò che non sappiamo spaventa più di quello che sappiamo. Non per niente in ogni buon racconto dell’orrore la fase del “primo contatto” è quella più difficile per i nostri eroi. Non sapendo ancora con chi hanno a che fare, commettono errori e finiscono inevitabilmente per dare un bel vantaggio al mostro di turno. Una volta capito chi è il nemico, tuttavia, spesso viene fuori la natura resiliente dell’essere umano e questo permette ai protagonisti di uscirne fuori, se non incolumi, almeno ancora vivi, seppure traumatizzati.

A volte tuttavia anche “il ritorno” si può trasformare in un incubo, ovvero un mostro già affrontato e, si sperava, ormai storia, rispunta a fare a pezzi le persone. A volte è davvero lui, a volte è un emulatore, a volte qualcos’altro, ma la paura viene trasmessa innanzi tutto dal ricordo di ciò che è successo nel passato, quindi dall’aspettativa di quello che potrebbe succedere nel futuro. I sequel di “Alien” ne sono un esempio, seppure nessuno si può considerare sullo stesso livello della prima pellicola.

Può sembrare strano far spesso riferimenti ai film dato che stiamo parlando di scrivere un romanzo, ma questo è voluto. Serve a far capire di cosa bisogna permeare la storia per creare il giusto clima di tensione, ovvero di tutto quello che in un film c’è e in un romanzo no. Se non si riesce a generare nel lettore un immaginario così intenso da fargli sentire letteralmente suoni, musica e immagini come in un film, difficilmente le parole da sole basteranno. L’orrore infatti non lo produce il libro, tantomeno attraverso mere descrizioni: bisogna stimolarlo nel lettore stesso. Per questo chi legge si deve innamorare dei personaggi e quindi aver paura “in loro vece”, per loro. Per questo la storia deve suscitare la paura anche se parla di una fobia che non rientra fra quelle di chi legge. Se devo suscitare paura con dei serpenti in una persona che non ha alcuna paura dei rettili, devo farle sentire la sensazione di quei corpi sulla pelle, fargliela sentire al buio, quando non può vedere, così che, anche se magari quella persona ha paura dei ragni o di altri animali, finirà per fare un transfer e sostituire ai serpenti le proprie paure.

In pratica, non giocate tanto sul “nome” della paura, ma sulle sensazioni: odori, colori, luci, ombre, sensazioni tattili, suoni. Mentre il lettore legge, dovrà ogni tanto alzare lo sguardo impaurito e scrutare nell’ombra della stanza, sussultare come sentirà un suono, sentire i brividi lungo la schiena al semplice tocco di qualcuno che lo interrompe, magari per andare a cena. Dovrete ipersensibilizzarlo e quindi giocate su tutti e cinque i sensi.

Ricapitolando, i cinque elementi che caratterizzano un horror sono: le paure, le sensazioni, le presenze, il mistero, il macabro. Per massimizzare l’uso di questi elementi, ragionate nel modo seguente.

Le paure: andate ai fondamentali. Se la vostra paura è troppo specifica, influenzerà solo una piccola parte dei lettori. Quasi nessuno ha paura dei broccoli e quindi, a meno che non siate uno scrittore coi fiocchi, capaci di sviluppare addirittura una fobia là dove neppure esiste, evitate di usarli. Sfruttate invece paure con una forte connotazione sensoriale, come la claustrofobia, la paura di annegare o soffocare, di bruciare o essere seppellito vivo, quella di animali o insetti particolarmente brutti e rivoltanti.

Le sensazioni: giocate molto su quelle sensazioni che abbiamo in continuazione e che in genere ignoriamo. Ad esempio un leggerissimo soffio sul collo, un rapido calo di temperatura, lo spegnersi brusco della luce, un suono graffiante e insistente. Sono tutti elementi perfetti perché potrebbero accadere mentre si sta leggendo la storia.

Le presenze: visibili o invisibili, mostruose o al contrario stupende. Un classico è la bambina innocente che nasconde in sé una presenza demoniaca. Non pensate al mostro solo come a qualcosa che è sempre brutto, orrendo e disgustoso, ma mescolate bellezza e orrore nella stessa creatura. È molto più efficace. Pensate alle stupende ballerine del “Titty Twister” in “From Dusk till Dawn” scritto da Quentin Tarantino e diretto da Robert Rodriguez, che si rivelano poi essere vampiri. Analogamente, un mostro è molto più mostruoso quando ha caratteristiche antropomorfe che totalmente aliene. Gli ibridi fanno più paura proprio per la loro natura non definita.

Il mistero: al contrario di quello che succede in un thriller, in cui alla fine si scopre chi è l’assassino, nella fantascienza, in cui il mistero ha solide fondamenta scientifiche, e nel fantasy, in cui ha comunque una spiegazione legata alla magia, nell’horror non sta affatto scritto da alcuna parte che il mistero debba essere spiegato o il segreto debba essere alla fine rivelato. Il bello dell’horror è che la sua natura misterica può restare immutata fino alla fine. In un horror non è necessario spiegare la minaccia, ma solo farla esistere, anzi, se questa non viene spiegata è anche meglio. Per lo scrittore questo ha un vantaggio non da poco: qualsiasi incoerenza si introduca è molto più perdonabile che in altri generi letterari. Si assume che ci sia una spiegazione a tutto, ma non la si deve necessariamente dare. Che sia il lettore a immaginarla, se vuole.

Il macabro: nell’insieme e nei dettagli. Un horror non può basarsi solo sulla tensione, altrimenti sarebbe un thriller. Il macabro è necessario e i dettagli possono diventare l’elemento chiave per proporlo al lettore. Un dito mozzato che cade a terra, un occhio che esce dall’orbita, la pelle che si disfa rivelando il tessuto sottostante. E poi fluidi, di ogni tipo. Vischiosi, dal colore rivoltante, magari acidi o portatori di qualche orrenda malattia. Teste e arti mozzati, tronchi squartati sono indubbiamente macabri, ma lo diventano ancora di più se il corpo continua a muoversi o si trasforma in qualcos’altro. Mutazioni, trasformazioni, metamorfosi, sono uno dei leitmotiv delle storie horror. Soprattutto se a trasformarsi è qualcuno di cui ci fidiamo o che amiamo: una moglie o un marito, un figlio, il fido cagnolino, persino il nostro automa di fiducia. Non c’è nulla che sconvolga di più l’animo umano che il cambiamento, la trasformazione: genera instabilità, insicurezza, paranoia.

column ars scribendi marzo 2018

Bene, adesso avete tutti gli elementi. Un’ultima considerazione che ho fatto altre volte e che vale per tutti i generi, ma soprattutto per quelli in cui si pensa che basti mettere qualche “effetto speciale” per cavarsela: non si può prescindere dall’avere una buona storia. La trama deve essere solida, magari semplice, non necessariamente originale, ma ben definita e soprattutto ben raccontata. Senza una buona storia a fare da impalcatura, tutti questi elementi da soli non potranno mai sostenere un intero romanzo. Ancora ancora un racconto breve, ma non un romanzo.

A cura di Dario de Judicibus