Carbone alterato formato cellulosa
Uno degli stereotipi più diffusi quando parliamo di trasposizioni transmediali riguarda l’indiscussa qualità del “primum” rispetto al resto, dell’opera originale (che presta materiale e idee) nei confronti di tutti i futuri adattamenti. Il luogo comune si fa ancora più forte e convinto quando si parla di film e serie TV ispirate a dei libri. La frase “ma è il libro è meglio” è (e continuerà a essere) un mantra costante. Ebbene, anche questa volta, dobbiamo concordare con questa sorta di regola non scritta. L’ennesimo caso di prodotto “secondo” inferiore all’originale riguarda la serie televisiva Altered Carbon, pubblicata lo scorso febbraio sulla piattaforma di streaming online Netflix.
Qui vi abbiamo parlato dei motivi per cui questo prodotto non ci ha pienamente convinti; di seguito, invece, cercheremo di spiegarvi perché il libro è meglio, attraverso l’analisi dell‘opera letteraria di Richard Morgan e distribuita attualmente in Italia da TEA.
(Di nuovo) benvenuti a Bay City!
Siamo sempre nel 2384 e sempre a Bay City (che peraltro è il titolo con cui è conosciuto in Italia il libro); nei panni (cerebrali, almeno) dell’ex Spedi Takeshi Kovacs dovremmo risolvere un caso di omicidio-suicidio per poter riottenere il nostro vero corpo e la libertà promessa. Questo piccolo passaggio ci permette di capire come il soggetto alla base della narrazione sia il medesimo. Così come i toni da thriller noir (qui ancora più marcati e crudi) a sporcare l’ambientazione distopica. Cionondimeno questo folle trip fantascientifico pieno zeppo di nuove tecnologie, sigle, sovrapposizioni fra il virtuale e la realtà, possiede un respiro più ampio capace di svilupparsi in maniera più articolata e coerente dal punto di vista narrativo. L’architettura generale, infatti, presenta un impianto che non ha lavorato di sintesi né ha subito patchwork atti a ricombinarne gli elementi e a ridurne gli aspetti più violenti e sessualmente espliciti. Per questo l’intreccio, oltre a non prestare il fianco a banalizzazioni e manicheismi eccessivi, si congegna come un puzzle incastrato a regola d’arte dove i personaggi presentano una quadra concorde alla loro natura e alla loro economia all’interno del testo. Perché è vero che alcune modifiche sono necessarie dato l’utilizzo di un differente linguaggio artistico/produttivo, ma è altrettanto vero che tali scelte dovrebbero possedere una loro organicità e una visione di insieme che ne giustifichi la presenza. Inserire, togliere, ibridare, personaggi, senza una scrittura adeguata, comporta un indebolimento dell’intero mondo immaginifico abitato non più da personalità realistiche e tridimensionali (al di là del loro ruolo effettivo), ma da macchiette inutile oltreché dannose ai fini dell’immedesimazione dello spettatore.
Questione di stile
Una scrittura fluida e cristallina sostiene più che adeguatamente il lettore per tutta la lunghezza del romanzo. Magari alcune parti oniriche risulteranno un po’ stantie e retoriche, ma coinvolgente e riuscita è la creazione di un immaginario ad alto tasso tecnologico, mai astruso o eccessivamente cerebrale, capace di riflettere su temi e questioni care alla tradizione del genere. Certe scelte lessicali (anche se qui il giudizio si rimanda alla versione tradotta in italiano) fanno storcere il naso poiché stonano e appesantiscono inutilmente alcuni passaggi, ma al di là di questi piccoli aspetti Richard Morgan dimostra il proprio talento come scrittore e la capacità di saper imbastire con onestà ed efficacia una detective story fantascientifica che guarda agli illustri maestri del passato senza dimenticarsi del presente (anche se sembra assurda come affermazione).
In chiusura possiamo affermare come il romanzo di Altered Carbon riesca laddove il suo adattamento per il piccolo schermo ha fallito, schiacciato sotto il peso della sua stessa ambizione. Dove un mancato sincretismo autoriale invece di decostruire, o selezionare, per ottenere un nuovo congegno che sapesse reinterpretare l’originale perseguendo una strada propria, si è impantanato nel più sciocco ma subdolo inconveniente estetico: pretendere la fedeltà senza voler rinunciare a qualcosa; sacrificare la qualità sull’altare della quantità di elementi e temi da trattare. Non che sia un problema a priori, solo che nei casi in cui il processo presenta dei limiti (per incapacità o per altri motivi), il risultato non può che essere (in parte) deludente.