La XXIII edizione del Romics si è appena conclusa, e tra i tanti motivi di interesse per l’evento dobbiamo senza dubbio annoverare la presenza di Martin Freeman, che ha vinto il premio Romics d’Oro di questa edizione.
Dopo aver incontrato il pubblico, con migliaia di fan che hanno assediato i padiglioni della fiera per avvicinare l’attore, Freeman si è concesso gentilmente ai nostri microfoni, in una piccola e colloquiale round table dove noi di Stay Nerd insieme ad altri giornalisti abbiamo potuto scambiare qualche parola con l’attore britannico e rivolgerli un po’ di domande.
Innanzitutto ti facciamo i complimenti per il premio Romics d’Oro.
Cosa ne pensi di questi eventi a tema comics, e qual è il tuo rapporto coi fumetti?
Grazie mille. Non sono mai stato un divoratore di fumetti, anche se qualcosa in vita mia ho letto, ma prettamente fumetti britannici e qualcosa di Marvel e DC. Tuttavia adoro questi eventi come il Romics, perché sono pieni di gente, si vedono tante persone con i costumi più folli e particolari, ed è un tripudio di colori. La gente che vi partecipa sa coinvolgere col proprio entusiasmo, e questo è fantastico.
Grazie ai ruoli che hai interpretato, sei stato definito “Re dei Nerd”, ripercorrendo un po’ il percorso fatto da Hugo Heaving. Come la vivi questa cosa?
Sono felice di essere il re di qualsiasi cosa (ride n.d.R.). Devo dire che è una interessante coincidenza, ma nulla più di ciò. Buona parte di quello che ho fatto nel cinema o per la TV è diventato presto una sorta di cult, quindi presumo sia per questo. Suppongo che il concetto di nerd o di geek si possa ormai definire mainstream, mentre quando ero piccolo se eri un nerd o un geek venivi messo da parte. Adesso tanti di loro invece sono importanti nel mondo del cinema, della televisione e in molti altri ambienti, per cui presumo che essere il loro re significhi essere davvero potenti (ride nuovamente n.d.R.).
A parte le battute, io quando scelgo un film è perché sono attratto dalla storia e dalla sceneggiatura, quindi il tutto è stato davvero casuale.
A maggio uscirà Cargo, uno zombie movie. La tematica zombie, da L’alba dei morti viventi a L’alba dei morti dementi (Shaun of the dead) è stata trattata in tutte le salse. Come può essere ancora rinnovata per il pubblico del 2018?
Non ne ho idea (sorride n.d.R.). È una giusta osservazione, ma dobbiamo dire che la gente ama i film di zombie a prescindere da tutto, ed io stesso amo queste pellicole così come amo Cargo.
Tuttavia se fosse stato il classico zombie movie forse non avrebbe destato un particolare interesse. Invece in Cargo ci sono tanti elementi importanti, come la famiglia, la perdita, l’essere genitore e cercare di proteggere i propri figli ad ogni costo. Gli stessi registi Ben Howling e Yolanda Ramke amano gli zombie movie, ma Cargo non è solo questo. È decisamente di più.
Parlando un po’ della tua esperienza nel MCU, come è stata? Hai incontrato Benedict Cumberbatch sul set? E, in caso, che effetto ti ha fatto ritrovarlo con un altro vestito addosso?
Ho amato questa esperienza nel Marvel Cinematic Universe, è stata eccezionale, anche se purtroppo non ho avuto occasione di incontrare Benedict sul set. Spero però che questo possa accadere in futuro.
Aggiungo che sono inoltre molto orgoglioso di aver partecipato a Black Panther, anche per il successo mediatico che ha avuto e sta continuando ad avere, per via delle varie motivazioni socio-politiche.
A brevissimo ti vedremo al cinema con Ghost Stories, che è un Supernatural thriller.
Era uno spettacolo teatrale, e dunque per una volta abbiamo un film che dal teatro arriva al grande schermo. Come hai vissuto questa esperienza?
L’esperienza è stata davvero fantastica. È chiaro che il film è un’animale diverso rispetto al teatro. Mi sono trovato a mio agio, anche perché con uno dei due sceneggiatori avevo una comunione di radici, dal momento che siamo cresciuti entrambi con un taglio molto british. La cosa incredibile è che gli effetti erano in buona parte reali e facevano davvero paura, quindi nel momento in cui si vede il mio personaggio spaventarsi in camera era proprio Martin Freeman veramente terrorizzato. Non c’è nulla di più realistico, no?
Visto che hai lavorato sia per il teatro, che per il cinema, che per la TV, mezzi dunque molto diversi tra loro, puoi dirci in cosa cambia il tuo approccio? E qual è la differenza più grande tra il lavorare in serie TV come Sherlock o Fargo dall’inizio, rispetto ad entrare a far parte del Marvel Cinematic Universe – che di fatto è come fosse una enorme serie TV – a progetto inoltrato?
È sicuramente molto diverso. Quando andai in Nuova Zelanda per girare Lo Hobbit ebbi la sensazioni di salire a bordo di un treno già in corsa, perché Peter Jackson sapeva esattamente cosa stava facendo. Queste produzioni, così come quelle Marvel, sono imponenti e tu sei un passeggero all’interno di un veicolo fantastico; non devi preoccuparti di nulla e ti senti in un certo senso protetto.
In serie come Fargo o Sherlock è diverso, e proprio perché il progetto parte con te hai un differente tipo di entusiasmo e nessuno sa come andranno le cose, se piacerà alla gente, ma quando poi ti accorgi che hai partecipato ad un prodotto fortunato, che ha ottenuto successo, è meraviglioso.
Comunque si tratta di situazioni totalmente distanti tra loro. Black Panther sarebbe andato ugualmente in un certo modo con o senza di me, però posso affermare di essere onorato di averne fatto parte.