Girls (don’t) Just Want To Have Fun
Se la prima stagione ci aveva già convinti, la seconda di Glow è un autentico trionfo. Tutte le promesse dell’apertura della saga delle Signore del wrestling lanciata da Netflix sono in questa seconda batteria di episodi più che mantenute: Liz Flahive e Carly Mensch si prendono lo spazio per approfondire tematiche essenziali – soprattutto in questo particolarissimo momento storico – e per portare la libertà, la creatività e la follia registica a livelli assolutamente entusiasmanti.
Protagoniste della seconda stagione, così come della prima, un gruppo di donne che – nella Los Angeles degli anni Ottanta – si trovano a fare del wrestling il proprio mestiere, la propria famiglia e passione. Dopo le vicissitudini che hanno portato alla selezione e alla definizione dei ruoli, dopo i tradimenti, i drammi e i primi timidi passi verso nuove amicizie, le protagoniste di Glow sono pronte per godersi il meritato successo del loro show.
Liz Flahive (producer per Homeland e sceneggiatrice per Captain Marvel) e Carly Mensch (Orange is the new black) ripercorrono i retroscena privati (e romanzati) di uno show realmente andato in onda in America negli anni Ottanta, concentrando il racconto sul punto di vista della protagonista Ruth Wilder (Alison Brie) e della sua controparte, Debbie Eagan (Betty Gilpin) che in questa stagione mostra sfumature inedite della sua interessante personalità. Allo stesso modo, scendiamo a fondo anche nelle vicende intime degli altri personaggi, su tutti in quelle del regista dello show Sam Sylvia (Marc Maron) e della figlia Justine (Britt Baron), della Welfare Queen Tamme Dawson – Kia Stevens (che nella vita è una vera wrestler, con il nome d’arte di Awesome Kong) e del presentatore e produttore Bash Howard (Chris Lowell).
Il format ha il grande merito di parlare di alcune tematiche molto care a chi si interroga sulle questioni di genere, con una chiave di lettura leggera, accattivante eppure mai superficiale: un equilibrio di scrittura che ha del miracoloso, tanto è privo di sbavature e retorica. Tra questi grandi temi spicca a più riprese quello della genitorialità, che è affrontato da tre personaggi diversi in tre diverse fasi della vita materna e paterna.
Nel cammino verso l’autodeterminazione femminile, infatti, una delle questioni più delicate è proprio quella del proprio ruolo biologico e della conciliazione della propria posizione sociale e lavorativa con l’essere madri. Così, se da una parte la bionda Liberty Belle-Debbie Eagan deve affrontare il trauma della separazione sia dal marito che da figlio di pochi mesi (e il senso di colpa dell’abbandono), dall’altra la Welfare Queen Tamme Dawson si confronta col figlio ormai adulto sul suo nuovo, insolito, lavoro.
L’episodio quattro, “La madre di tutte le sfide” è proprio dedicato a questo tema e tratta, in perfetto stile Glow, della difficoltà di essere genitori e del riscatto che solo l’amore vero, quello tra madre e figlio, può garantire. È un momento importante per la resa psicologica dei personaggi, di cui mostra la forza e la fragilità, contribuendo a creare un forte legame empatico con il pubblico. Allo stesso tempo, entrambe le figure femminili decidono con coraggio di non anteporre il loro ruolo di madri alla loro professione. In un panorama in cui siamo soliti leggere e guardare storie di donne che trovano la loro suprema realizzazione solo quando si lasciano coinvolgere nel miracolo della procreazione, questa è una novità assolutamente apprezzabile (e apprezzata), uno smacco all’ipocrisia finto-femminista che tende a concedere libertà alla donna fintanto che non si decide a capitolare nel mai superato cliché di angelo del focolare.
Ambientando la storia negli anni Ottanta, quando si presuppone che determinate conquiste non fossero ancora state fatte, Flahive e Mensch si servono di un espediente raffinatissimo che comunica forte e chiaro: la situazione non è poi così cambiata, le emergenze di genere sono ancora impellenti. Questa riflessione diventa piuttosto decisa nell’episodio cinque, dall’emblematico titolo: “Anche i pervertiti sono persone”, dove si esprimono tutte le contraddizioni e il grave conflitto tra dignità, morale e ambizione che una donna deve affrontare, in qualunque ambito voglia fare carriera.
Nel dialogo tra le due protagoniste, Flahive e Mensch costruiscono un quadro piuttosto esplicito di quella che è sempre stata la condizione femminile nella società e, in particolare, nel mondo dello spettacolo. Se il personaggio più cinico (e realista) di Liberty Belle – non a caso emblema in carne ed ossa dei valori americani – si esprime in maniera piuttosto chiara su quelle che sono le regole non scritte nella convivenza tra i generi, Zoya prende le parti di quel movimento di protesta che negli ultimi mesi ha travolto Hollywood sotto l’hashtag di #meetoo. La scena ha un grandissimo potenziale di denuncia proprio perché a esprimersi in maniera sessista, ai limiti del disturbante, è una donna: le parole di Debbie sono il racconto di quanto sia stato interiorizzato l’atteggiamento subalterno femminile nel corso dei secoli e di come si siano sviluppati comportamenti di riflesso che contribuiscono ad alimentare la disparità.
Quello che traspare dalla sequenza, è un femminismo post-ideologico, che supera la fase sessantottina e che riflette concretamente sulla situazione e sulle reali responsabilità dell’attuale fase sociale e politica in cui ci troviamo. Lontano dall’attribuire le colpe a questo o a quel genere, il dibattito punta a individuare la radice del problema e a correggerlo, non in un’ottica di guerra dei sessi, ma di dialogo e solidarietà. In questo senso possiamo leggere anche la reazione di Sam Sylvia (ma lo sapevate che il look del personaggio è ispirato a quello di Stan Lee negli anni Ottanta?) alla denuncia di Ruth e la sua sincera indignazione nei confronti del capo della rete colpevole di molestie.
Registicamente parlando, la seconda stagione di Glow riprende lo stile ritmato e glamour della prima, portandolo verso picchi ancora più alti. Trattandosi di uno show che racconta uno show, il linguaggio meta-filmico trova diverse valvole di espressione: su tutte l’episodio otto, “La gemella buona”, un vero e proprio exploit di tutta la creatività e l’ironia di questo prodotto, dove assistiamo (finalmente) a una puntata del “vero” Glow, Gorgeous Ladies of Wrestling. I toni surreali e semi-demenziali dell’episodio, che ricordano un modo naif, spontaneo (e ormai più che superato) di fare tv, permettono agli spettatori della serie Netflix di immedesimarsi in maniera completamente immersiva nella storia in una totale sovrapposizione tra la finzione e la finzione della finzione.
Nell’economia di una serie pienamente riuscita, e che fa del suo lato glam uno dei suoi punti di forza, la colonna sonora non può che ricoprire un ruolo fondamentale. In questo caso, il commento musicale diventa strutturalmente importante e partecipa alla trama e alla ricostruzione dell’immaginario anni Ottanta – alla Madonna di Like a Virgin e alla Cindy Lauper di Girls Just Want To Have Fun, per intenderci – che accompagna le storie dei personaggi. La sensualità libera ed emancipata espressa dalla musica diventa uno dei leitmotiv della stagione e valorizza la grande vitalità e leggerezza che caratterizza alcune wrestler, riportando l’attenzione su lunghe sequenze di pura commedia che ben si bilanciano con gli aspetti più riflessivi e di denuncia.
La parola chiave di Glow, si potrebbe commentare, è equilibrio. Si tratta, attenzione, non di un equilibrio misurato, discreto e lineare, ma di un grande e festoso caos, le cui parti si ricompongono in un risultato perfettamente funzionante. Glow riesce allo stesso tempo a essere eccessivo e delicato, profondo e amabilmente superficiale: è un ottimo prodotto di intrattenimento, che unisce dramma, romanticismo, ironia e denuncia, con una visione politica che non lascia spazio a zone grigie di interpretazione.
Quello dello spettacolo è un mondo estremamente maschilista, in cui le donne devono camminare sulle uova dosando fascino e discrezione. Eppure, esattamente come i personaggi maschili, le artiste del wrestling raccontate in questa serie hanno una forte determinazione, ottime idee e un innato spirito resiliente. La strada per risolvere una volta per tutte (?) la profonda ingiustizia che vede da un lato il prototipo femminile della scema, sexy e silenziosa e dall’altro il modello maschile di forza e risolutezza, non è nello scontro diretto tra uomini e donne, ma nella costruzione di reti di solidarietà e nel costante interrogarsi sul proprio ruolo nel mondo e le proprie relazioni. In questo senso possiamo leggere la (bella) evoluzione del personaggio di Sam Sylvia che trasforma il suo essere sfacciatamente misogino in un grande rispetto per le sue collaboratrici e amiche.
Madri? Amanti? Attrici? Le Grandiose Lottatrici del Wresting sono prima di tutto guerriere, con una voglia rivoluzionaria di salire sul ring e dimostrare a tutti quello di cui sono capaci.