Non fatevi trarre in inganno dalla presentazione da “gioco anime in pixel art”, A space for the unbound è un capolavoro con molto da dire
Mi son preso qualche giorno tra i titoli di coda di A space for the unbound e quello che state leggendo per cercare di elaborare tutto. Non che ci sia riuscito, però. A space for the unbound tocca tante cose nelle sue dodici ore, spesso suggerendole, altre volte costruendoci dense narrazioni attorno: la storia dell’Indonesia, la storia delle generazioni che l’hanno fatta quest’Indonesia, ma anche le vite dei più giovani che ora la abitano tra sistemi di valori, società, rapporti con l’altro ed equilibri mentali incrinati.
A space for the unbound condensa in uno slice of life in crescendo una quantità tale di informazioni e poesia che è difficile anche fare ordine una volta concluso: abbiamo le storie dei protagonisti che si intrecciano tra loro ma anche con tanti altri personaggi che possiamo “esplorare”.
Mi spiego: la meccanica principale del gioco si chiama Spacedive, ed è la capacità del protagonista di entrare nella mente di alcuni personaggi. Così scopriamo storie di rara umanità mentre ci affacciamo a una realtà storica e sociale decisamente poco conosciuta (almeno a noi), senza che nessuno di questi elementi sia mai prominente sull’altro ma anzi, in cui ogni pezzo del racconta esiste di concerto agli altri creando un racconto organico e naturale come rare volte se ne son visti nel videogioco.
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Un racconto che senza volerlo – o meglio, senza esplicitarlo ma volendolo e facendolo in modo raffinatissimo – distrugge ogni barriera culturale che potevamo pensare ci separasse diventando subito universale, trasversale non solo rispetto alle particolarità culturali ma anche alle generazioni e alle fasce di età. In apparenza un uno slice of life teen, nei fatti una storia su cosa succede quando l’altro non ci accetta e ci marginalizza che dice molto su un rigido sistema di aspettative sociali e familiari.
La grammatica usata da A space for the unbound è quella dell’avventura grafica, sotto l’aspetto meccanico, perfettamente funzionale a costruire un racconto che riusciamo a sentire anche nostro grazie a diversi riferimenti a quella che è la cultura di base del videogiocatore, ma che di fatto prende le mosse dal realismo magico e dall’animazione giapponese.
Un racconto che ci mette nei panni di Atma, un giovane fuggito dalla sua città che nel piccolo paese dove è ambientato il gioco incontra Nirmala, una bambina che sta scrivendo una storia. Se ne separerà e smetterà di essere certo di cosa è un sogno e di cosa è reale attraverso una serie di situazioni che hanno uno scopo preciso: scavare nel passato dei personaggi.
Atma pian piano scoprirà il passato di ognuno e le loro intenzioni, come le persone si sono ferite a vicenda e quali responsabilità hanno l’uno rispetto allo stato mentale dell’altro seguendo una serie di brevi archi narrativi che affrontano la quotidianità dei personaggi per poi aumentare di intensità e “magia” con l’avanzare della storia quando i nodi cominceranno a venire al pettine.
Lo spazio per chi non ha legami (traduco il titolo) è uno spazio che ci siamo ritagliati perché qualcosa è “andato storto” nei legami, non perché siamo nati senza averne. Perché, quindi, ci siamo rifugiati in questo spazio? Possiamo ricostruire questi legami? E nel processo quanto di noi abbiamo sacrificato, e quanto siamo disposti ancora a sacrificare? E gli altri, quelli tagliati fuori, perché li abbiamo tagliati fuori? Ma, soprattutto, può davvero esistere uno spazio per chi non ha legami?
Il gioco affronta una questione importante che è facile ricondurre al solo bullismo, ma che in realtà dice molto di più di quello che c’è in superfice. A space for the unbound è una complessa sineddoche che tra metafore disegnate col pennello e una scrittura sopraffina riesce a parlare di tante cose ben più strutturate del “piccolo” slice of life teen che sembra mettere in piedi. Tante cose non facilmente inseribili in un sistema ordinato e logico anche dopo qualche giorno dalla conclusione del gioco.
La sensazione è quella che si ha dopo aver letto alcune di quelle storie metaforiche contenute in alcuni testi di filosofia orientale: sentiamo di essere cresciuti, abbiamo afferrato dei concetti, ma c’è la sensazione che qualcosa di più grande lo abbiamo solo sentito e non effettivamente afferrato e fatto nostro.
A space for the unbound ha diversi meriti oggettivi di cui potrei parlarvi: una pixel art eccellente, una scrittura fantastica, dei puzzle intelligenti e pieni di significato e via dicendo, ma mi sembrerebbe di ridurre tutto a qualcosa di pratico, mentre uno dei più grandi meriti del gioco è proprio come il non pienamente tangibile – il realismo magico – è utilizzato per raccontarci qualcosa, e anche qualcosa di importante.
Mentre in questi giorni tutto intorno a noi si parla, ancora una volta, di voti e di cosa dovrebbe essere la forma recensione, io devo ancora metabolizzare e capire il gioco indie indonesiano (che suona come “mattone polacco minimalista”). Però è una bella sensazione, quella del non aver capito del tutto, di non aver avuto la possibilità capacità di mettere in ordine i pezzi e quindi di archiviare il gioco come “finito” e di “riporlo sullo scaffale”. Una sensazione di continuo tentativo di elaborazione che volevo condividere. Poi magari ho scritto 900 parole e mi son capito solo io, ma tant’è.
Ah, giusto: se eravate qui per sapere se dovresti acquistare il gioco la risposta è sì.