Chi è Aaron Sorkin, una delle migliori penne di Hollywood
“Ad Aaron Sorkin farei scrivere di tutto, anche la lista della spesa”. Una quindicina di anni fa, facevo da poco questo lavoro e un collega più grande ed esperto di me, parlando di Aaron Sorkin, se ne usciva con questa frase, che mi è rimasta impressa e mi permetto di fare mia, titolandoci addirittura il mio articolo. Ammetto peraltro candidamente che, all’epoca, non conoscevo poi così bene Aaron Sorkin, sebbene a mia discolpa va altresì detto che fino a quel momento la carriera dello sceneggiatore newyorkese non era poi costellata di grandi capolavori, ma quanto bastava per essere già considerato come uno dei più apprezzati del settore, in tutto lo star system.
Facciamo un breve excursus della sua carriera, imparando a conoscere chi è davvero Aaron Sorkin e dove nascono il suo amore e il suo talento per la scrittura.
Nato a New York nel 19161, da madre insegnante e padre avvocato, capirà ben presto di non voler seguire le orme paterne come invece faranno il fratello e la sorella, e il giovane Aaron si interessa da subito alla recitazione, con l’obiettivo e la speranza di diventare un grande attore. Frequenta la Scarsdale High School, dove partecipa a diversi corsi di citazione e teatro, e nel 1979 inizia a studiare presso la Syracuse University, laureandosi nel 1983 in Musical.
Dopo la laurea torna nella sua New York provando a sfondare come attore, ma questa non sembra la strada più adatta a lui e inizia a svolgere i lavori più disparati per mantenersi. Durante il tempo libero però si diletta in ciò che poi diventerà la sua migliore qualità: scrivere.
Ben presto Aaron Sorkin diventa un promettente commediografo, ottenendo successi a Broadway e non solo, finendo poi nel 1990 per esser messo sotto contrato dalla Castle Rock Entertainment, per cui nel 1992 adatta per il cinema la sua opera teatrale A Few Good Men (Codice d’onore), diretto da Rob Reiner con un cast di prim’ordine che comprende Tom Cruise, Jack Nicholson e Demi Moore.
La strada per il successo sembra tracciata, e non sarà l’unica volta in cui Aaron Sorkin entrerà, cinematograficamente parlando, in un’aula di tribunale.
Già dagli anni ’90 comunque lo sceneggiatore diventa un elemento cardine dello star system hollywoodiano, e lo stesso Reiner lo vorrà al suo fianco tre anni dopo per affidargli lo script de Il presidente – Una storia d’amore, con Michael Douglas. Aaron Sorkin dimostrerà un’abilità innata e incredibile nella scrittura di personaggi, dialoghi e monologhi, riuscendo a tenere un ritmo costantemente alto pure in opere distanti dal concetto di enternainment. Ma Sorkin, anche grazie ai registi e alle troupe tecniche con cui ha lavorato, sempre di primo livello, sa come tenere lo spettatore incollato allo schermo e allora non ci stupiamo quando ci approcciamo alla visione de La guerra di Charlie Wilson, diretto da Mike Nichols, che senza dubbio tra i pregi maggiori ha il suo script.
Non possiamo parlare di consacrazione, perché si trattava già di uno sceneggiatore affermato, ma il film che l’ha reso apprezzato da tutti, anche dal grande pubblico, è stato probabilmente The Social Network di David Fincher, tra le migliori opere del regista di Denver, nonché uno dei più riusciti film degli ultimi vent’anni, quantomeno (ma non solo) limitatamente ai biopic.
È straordinario il modo in cui Aaron Sorkin tratteggia Mark Zuckerberg, impersonato da un altrettanto eccezionale Jesse Eisenberg, e la scalata al successo di un nerd sfrontato, sfacciato, consapevole di avere un’intelligenza nettamente superiore alla media e annoiato persino di parlare al cospetto di giudici e avvocati. È qui – come dicevamo – che Sorkin rientra cinematograficamente in un’aula di tribunale, il luogo che l’ha reso celebre e nel quale tornerà, poiché evidentemente a suo agio, nei suoi due unici film da regista: Molly’s Game e il recente Il processo ai Chicago 7.
Sebbene totalmente diversi per struttura e temi trattati, in entrambi il processo è un momento nevralgico della narrazione, e ogni volta i protagonisti sono gli accusati, quasi a loro agio nelle aule e sprezzanti delle autorità che devono giudicarli.
In Molly’s Game, ispirato alle memorie di Molly Bloom, la protagonista interpretata da Jessica Chastain è una donna determinata che si ostina a non voler patteggiare ma decisa a farsi processare con lo scopo di uscirne pulita, assolta, in cambio di alcune informazioni sui partecipanti al giro di poker, mentre i 7 di Chicago sono lì perché vogliono che siano chiare le loro intenzioni e lo scopo delle proteste. Per quanto riguarda il Mark Zuckerberg di Jesse Eisenberg è piuttosto evidente che quel ragazzo che si presenta in udienza in pantofole è ormai un uomo così sicuro di sé e così certo di avere il mondo tra le mani che quasi si diverte nel provocare giudici e avvocati dell’accusa.
Nel 2015, cinque anni dopo The Social Network, la penna di Sorkin descriverà con cura certosina un altro dei re della Silicon Valley, il compianto Steve Jobs nel film di Danny Boyle. Anche qui lo sceneggiatore non si lesina nel tratteggiare i difetti di un uomo che, ai tempi dell’uscita del film ci aveva purtroppo già lasciati, ma che appunto al netto dei tanti e manifesti pregi di una persona di un’intelligenza incredibile mal celava la sua natura di essere umano, dove arroganza e cinismo si prendono spesso la scena anche nel suo avatar interpretato sul grande schermo da un ottimo Michael Fassbender.
Ma Aaron Sorkin non è un abile scrittore soltanto quando si tratta di descrivere protagonisti controversi o raccontare le atmosfere all’interno di un’aula di tribunale. Ne è una prova, ad esempio, un altro dei tanti capolavori usciti dalla sua penna e diventati sceneggiatura: L’arte di vincere (Moneyball), con Bennett Miller alla regia. Si tratta di uno script non originale, poiché basato sul libro Moneyball: The Art of Winning an Unfair Game di Michael Lewis sulla squadra di baseball Oakland Athletics e sul loro general manager Billy Beane, interpretato da un ottimo Brad Pitt. Tanto per cambiare, anche stavolta Sorkin ottiene la nomination agli Oscar, uscendo sconfitto – un po’ a sorpresa – dal tridente Alexander Payne, Nat Faxon e Jim Rash per Paradiso Amaro, che aveva la concorrenza spietata di altre due eccezionali sceneggiature non originali, come quella de Le idi di Marzo e La Talpa.
Affascinanti i dialoghi e il modo in cui Sorkin e il collega Steven Zaillian sanno rendere interessante un film sul baseball, anche per chi di questo sport non sa nulla, contribuendo a rendere Moneyball un’opera ammaliante e in grado di aggiudicarsi sei candidature agli Oscar.
Nel mezzo, il grande lavoro di Sorkin sul piccolo schermo ci ha regalato una serie pregiata come The Newsroom, trasmessa da HBO e distribuita in Italia da Sky, non arrivata purtroppo al successo toccato da altri grandi serial televisivi, e proprio di recente – in un’intervista a Vanity Fair – Aaron Sorkin si è espresso con delusione riguardo il mancato boom dello show, dando anche colpe a se stesso per non esser riuscito a comunicare le sue idee, diversamente da quanto avviene solitamente. Ad esempio, ha detto, “i problemi sono iniziati subito con la prima scena del pilot, un momento ormai cult della serie, in cui McAvoy ha un’esaurimento nervoso. Senza che me ne rendessi conto, stavo dando un’impressione sbagliata. Quella che stavo scrivendo era appunto una scena su un tizio che aveva un esaurimento nervoso, non volevo dare una lezione all’America su cosa ci sia di sbagliato in lei”.
Sebbene The Newsroom sia rimasta una serie per così dire di nicchia, a mio modo di vedere resta un grande show che rispecchia, pur nelle sue ovvie estremizzazioni, dinamiche interne delle grandi redazioni e che senza dubbio intriga quantomeno gli addetti ai lavori. Non avrà ottenuto particolari premi, ma si tratta pur di sempre di un medium diverso rispetto a quello in cui siamo abituati a vedere Sorkin e dove spesso, invece, viene premiato o risulta in lizza per i riconoscimenti più importanti, che siano i Golden Globe, gli Oscar o anche qualcuno minore. Proprio nel più prestigioso Academy Award Aaron Sorkin ha ottenuto in più occasioni la nomination, anzi – per dirla tutta – da The Social Network in poi ogni film che ha scritto ha avuto almeno la candidatura agli Oscar, ad eccezione di Steve Jobs, che paradossalmente vinse il Globe come migliore sceneggiatura.
Per ora la statuetta più ambita è arrivata soltanto per il film diretto da Fincher, ma ci sono buone possibilità che faccia il bis con Il processo ai Chicago 7, che si è già portato a casa il Golden Globe, sempre nella categoria suddetta.
Restiamo in attesa di scoprire quel che sarà, con la speranza che Aaron Sorkin continui a scrivere per il grande pubblico, perché che siano episodi per una serie TV o film per il grande schermo, tutto è sempre incredibilmente coinvolgente quando esce dalla sua testa e confluisce nella sua penna, al punto che non possiamo più farne a meno.