“Dipingo la mia vita come un quadro: Monet”
Lauro de Marinis, nome d’arte Achille Lauro, nasce a Verona ma cresce a Roma, dove inizia all’età di 22 anni la sua carriera nell’hip hop. Achille Idol Immortale, suo primo disco, mette subito in chiaro quelli che saranno i temi che pervaderanno la sua intera discografia.
L’anno è il 2014 e la forte carica esplosiva del primo LP si fa notare principalmente all’interno del panorama rap underground, grazie a testi volutamente provocatori e all’accostamento di temi agli antipodi come droga e religione, secondo un modello che contrappone sacro a profano, cavalcato con ancora maggiore consapevolezza proprio nelle sue ultime performance. Basti vedere l’esibizione alla serata inaugurale del Festival di Sanremo 2020, dove il cantante ha “omaggiato” il San Francesco dipinto da Giotto con «Il momento più rivoluzionario della sua storia in cui il Santo si è spogliato dei propri abiti e di ogni bene materiale per votare la sua vita alla religione e alla solidarietà».
Criminalità e vangelo sono i tratti distintivi dei primi lavori di Achille Lauro. Il secondo disco, Dio C’è, possiede già solo nel titolo una doppia lettura. Dio c’è è infatti una locuzione per indicare la presenza di uno spacciatore all’interno del quartiere. Pur non distaccandosi troppo dal primo lavoro, musicalmente la produzione prende una via più lisergica e pomposa. Una direzione quasi retorica considerando i testi, appartenenti a una quadra di genere senza particolari guizzi artistici. Nonostante la relativa originalità della prima parte della carriera, l’estro creativo di Achille Lauro ha bisogno ancora di un po’ di tempo per esplodere definitivamente. Nel 2016 abbiamo un primo parso verso la maturazione.
«Cristalli nei bicchieri di cristallo e Moët
Dipingo la mia vita come un quadro: Monet
Voglio un maggiordomo e dei Ferrero Rocher
Giro con uno scettro dentro queste banlieue».
(Teatro & Cinema, A. Lauro)
Il successo arriva in fretta per Achille, e come ogni rapper che si rispetti, iniziano i brani incentrati sull’ebbrezza della dolce vita. L’opening di Ragazzi Madre, Teatro & Cinema, è infatti un’esaltazione della figura del cantante secondo un approccio nettamente estetizzante.
La febbre dell’oro che d’ora in avanti caratterizzerà la carriera di Lauro, non è però (ancora) motivo per abbandonare i temi legati alla difficoltà di crescere in quartieri segnati da spaccio e criminalità. La title track del disco è, infatti, una lirica dedicata agli spacciatori che ingoiano i cosiddetti “pallini di cocaina” per non farsi beccare dalle guardie, diventando così “incinti” di sostanza stupefacente.
La crudezza del tema, sviluppato in una traccia trap tra le più coinvolgenti dell’album, è l’inizio di quell’ambiguità sessuale anch’essa caratteristica della vita del cantante. In questo modo, Achille Lauro comincia a mettere in crisi il concetto di mascolinità (tossica). Con brani come Teatro & Cinema, Ragazzi Madre, Ulalala, Cenerentola e Profumo da donna, il performer romano si distacca pesantemente dall’immaginario hip hop italiano e dai suoi lavori antecedenti, per proporre un tipo di trap più edonistico, decadente e androgino.
«Sono allergico ai modi maschili, ignoranti con cui sono cresciuto. Allora indossare capi di abbigliamento femminili, oltre che il trucco, la confusione di generi è il mio modo di dissentire e ribadire il mio anarchismo, di rifiutare le convenzioni da cui poi si genera discriminazione e violenza.»
(Sono io Amleto – A. Lauro – Rizzoli)
Se il passaggio dall’hip hop alla trap è una transizione fluida e naturale, quello segnato con Pour l’amour, suo quarto album, è uno stacco più brusco, con il passaggio quasi pionieristico al sottogenere della samba trap. Il disco è un ibrido dalle sonorità puramente latine contaminato con l’aggressività dell’elettro trap proveniente dalle maggiori fonti di ispirazioni dell’artista (Travis Scott, 6LACK e Young Thug). Le produzioni di Boss Doms (ormai fido collaboratore del cantante), Cosmo, Gow Tribe, Frenetik e Orang3, donano inoltre all’album quella dimensione poliedrica che sarà tratto distintivo del suo lavoro più famoso, il successivo 1969.
Il 2019 è per Achille Lauro l’anno della ribalta, grazie soprattutto a una memorabile partecipazione al Festival di Sanremo. Rolls Royce, la canzone con cui è in gara, non è una novità in assoluto, e non è neanche il brano più bello dell’artista. È però un pezzo punk, selvaggio e anticonformista, estraneo dal palinsesto musicale italiano che si ascolta per radio o per televisione. Una piccola rivoluzione che non sarebbe tale in qualsiasi altra parte del mondo, ma che in Italia assume quasi i tratti di un affronto alla generazione musicale precedente. Il brano si classifica solamente nono, ma è un successo nazionale che, appena prima della pubblicazione del quinto album, gli permette di raggiungere con facilità una fetta di pubblico fino all’ora disinteressato all’hip hop o alla trap.
1969 è un disco eclettico e cosmopolita nelle sue influenze sonore, che vanno dai Strokes a Kanye West, in grado di raggiungere quella piena maturazione tematica che è il compendio di sette anni di carriera dell’artista. Achille Lauro passa dall’essere un rapper underground a essere una iconica rockstar pop che affronta la sessualità e il gender in maniera diretta, offuscando il confine tra denuncia e provocazione e minando ogni forma di stereotipo. Achille si trucca, indossa le pellicce, la pochette e gli occhiali glitterati, fregandosene della “maschera” prevista dal genere musicale a cui aderisce. Ascoltare 1969, e subito dopo tornare a sentire Achille Idol Immortale è un’esperienza estraniante, che fa capire quanto il cantante sia cambiato nel corso di cinque LP.
Quest’anno, Achille Lauro è tornato sul palco di Sanremo con un’esibizione alquanto significativa, interpretando Me ne frego, brano con cui partecipa alla kermesse sanremese, con indosso solamente una tutina attillata e glitterata, dopo essersi “spogliato” metaforicamente e letteralmente dei propri abiti, seguendo il modello francescano citato prima.
Come recita il testo del brano, Achille se ne frega delle apparenze e distrugge i luoghi comuni del machismo che impera nell’hip hop e nella trap, cambiando completamente approccio. In molti, subito dopo l’esibizione, hanno paragonato Lauro all’arte di David Bowie, che ha poi citato direttamente qualche giorno dopo, vestito da Ziggy Stardust.
L’azzardo al Duca Bianco, pur eccessivo, non è strettamente sbagliato. Il problema principale della musica italiana, però, è il gap generazionale che c’è tra l’indie/trap e tutti gli altri generi. I più furbi corrono ai ripari con le collaborazioni, ad esempio Elisa/Calcutta o Subsonica/Coez, gli altri invece rimangono in un limbo fatto di talk show, feste di capodanno o esibizioni Sanremesi. Come il brano di Mahmood ha dimostrato l’anno scorso, a vendere in Italia non sono più i cosiddetti “big”, ma le nuove leve, a cui si dovrebbe dare più spazio possibile. A riempire gli stadi e girare l’Italia sono artisti come Cosmo, Carl Brave, Liberato, Tha Supreme (quest’ultimo ha malapena vent’anni).
Vedere Albano e Romina cantare subito dopo l’esibizione di Achille, non solo genera un effetto straniante, ma sembra proprio di aver cambiato canale per sbaglio. Me ne frego, pur non essendo la canzone della vita, è indubbiamente ancora una volta la cosa più rivoluzionaria di un festival refrattario davanti al cambiamento. Non essendo abituati alle novità, è normale che il collegamento Lauro/Bowie avvenga, poiché attualmente non esiste nulla in Italia di più sovversivo. E grazie a questo, Achille Lauro ha vinto, magari non Sanremo, ma sicuramente un posto di rilevanza all’interno della storia della musica del nostro paese.
«Voglio una vita così
Voglio una fine così
C’est la vie».
(RollsRoyce, A. Lauro)