Alla scoperta di Akira Kurosawa, il più grande maestro del cinema giapponese
Un Leone d’oro, un Leone d’argento e uno alla carriera alla Mostra del Cinema di Venezia. Una Palma d’oro al festival di Cannes. Un Orso d’argento al Festival di Berlino. Tre David di Donatello e due Nastri d’argento. Potrebbe bastare una descrizione della sua bacheca dei premi per dare un’idea della grandezza di Akira Kurosawa, uno dei padri fondatori del cinema giapponese insieme ad altri nomi pesanti come Yasujiro Ozu, Kenji Mizoguchi e Nagisa Oshima. La grandezza del cineasta di Tokyo è tale da rendere complicato l’approccio di neofiti ed esperti. In altre parole, parlare di lui non è affatto facile. Ma ci siamo noi, a fornirvi ben tre modalità per imparare a conoscerlo.
Akira Kurosawa, il precursore filoccidentale
Questo primo approccio è adatto a chi è più avvezzo alla componente storica. Quando Rashomon (1950) vinse il Leone d’oro a Venezia nel 1951 il cinema quasi giapponese era totalmente sconosciuto agli occidentali. Akira Kurosawa ha infatti il merito di aver aperto la strada a tutti i suoi compatrioti, contemporanei e precedenti, permettendo ai cinefili di tutto il mondo di scoprire una cultura filmica ricca e affascinante. Il forte appeal che i lungometraggi di Kurosawa sanno destare nel pubblico occidentale non è un caso: il cineasta non ha mai nascosto il suo amore per colleghi come John Ford, William Wyler e Frank Capra; cimentandosi inoltre nell’adattamento di autori come Shakespeare, Dostoevskij, Gorky e McBain. Questo atteggiamento filoccidentale ha allontanato progressivamente il pubblico giapponese, che a partire dagli anni Settanta cominciò a vederlo come un dinosauro appartenente a un’altra generazione. Eppure, come spesso sottolineato dallo stesso Kurosawa, i suoi lavori contengono sempre situazioni e storie riconducibili ai problemi sociali ed economici del Sol Levante del dopoguerra, oltre a riferimenti più o meno velati al teatro tradizionale (kabuki, shingeki e noh).
Akira Kurosawa, un innovatore della tecnica cinematografica
Questo secondo approccio è dedicato a chi vuole tirarsela un po’ di più, sfoggiando con orgoglio una conoscenza approfondita di Akira Kurosawa dal punto di vista tecnico. Il cineasta di Tokyo è stato una sorta di maniaco del controllo: aveva l’abitudine di supervisionare tutte le fasi della produzione e di lavorare sempre a stretto contatto con ciascuno dei suoi collaboratori. Non a caso, tutti sul set lo chiamavano Imperatore.
Per Akira Kurosawa una delle parti fondamentali del successo di un lungometraggio era la sceneggiatura: “Nemmeno un ottimo regista può tirar fuori un buon film da un pessimo script,” era solito ripetere. Per questo, spesso, riuniva tutti gli sceneggiatori in una stanza isolata, faceva loro scrivere la medesima scena e poi sceglieva la migliore, ritoccandola ulteriormente in prima persona. Inoltre, il maestro era solito produrre interi quaderni di appunti sul background dei personaggi e sulle loro abitudini. Ciascuno de I sette samurai (1954), per esempio, aveva una dieta, un modo di salutare e di allacciarsi i sandali unico. Dettagli che magari non sarebbero mai stati visti nella pellicola, ma aiutavano a conoscere a fondo l’argomento e, di conseguenza, sceneggiare meglio.
Sul piano delle inquadrature, la più grande innovazione introdotta da Akira Kurosawa è stata l’uso estensivo di telecamere multiple: la medesima scena veniva girata da più punti di vista, fornendo materiale per un montaggio più vario. Questa tecnica, inizialmente utilizzata soprattutto nelle sequenze d’azione, si è allargata anche a quelle di dialogo a partire da La Fortezza Nascosta (1951).
La caratteristica che rende Akira Kurosawa un unicum nel panorama dei grandi registi, però, è la passione per il montaggio, che considerava come la parte più creativamente interessante della produzione. Il cineasta svolgeva questa attività in prima persona, giorno per giorno, senza aspettare la fine delle riprese. Questo gli consentiva di stare al passo con le scadenze, soprattutto quando il materiale aumentava a causa delle telecamere multiple. Spesso, di conseguenza, i tempi di postproduzione dei suoi lungometraggi erano strettissimi: La sfida del samurai (1961), per esempio, uscì nei cinema appena quattro giorni dopo la fine delle riprese.
Akira Kurosawa è stato un innovatore anche nell’utilizzo della colonna sonora. In contrapposizione al cinema classico di Hollywood, in cui viene sempre usato un sonoro con lo stesso mood della scena a schermo, il cineasta ne sceglie uno di mood contrario, per creare un’atmosfera disturbante e ironica. In Cane randagio (1949), per esempio, un detective e un assassino combattono furiosamente nel fango, accompagnati da un’allegra melodia di Mozart.
Akira Kurosawa: un percorso cinematografico per i neofiti
Quest’ultimo approccio è adatto a chi vuole sfoggiare la conoscenza di alcuni dei capolavori di Akira Kurosawa, magari consigliando a un amico neofita da dove partire per apprezzarlo maggiormente. La scelta è semplice: il primo film da vedere è Rashomon, perché contiene alcuni dei temi più cari al cineasta e vede nei ruoli principali due dei suoi attori più rappresentativi: Toshiro Mifune e Takeshi Shimura. Ambientata nel Giappone dell’XI secolo, la pellicola segue le testimonianze di diversi personaggi a proposito dell’omicidio di un samurai e dello stupro della moglie. La stessa vicenda viene raccontata e messa in scena dal punto di vista di ciascuno di loro. Le versioni, ovviamente, sono tutte divergenti, sottolineando la natura illusoria e relativa della verità.
Akira Kurosawa è poi conosciuto per i suoi numerosi film sui samurai, che da un lato ne glorificano le gesta e dall’altro ne mostrano l’ambivalenza e la fragilità. I sette samurai, per esempio, vengono assoldati per proteggere gli abitanti di un villaggio dai banditi. Le loro azioni, però, diventano via via sempre più simili a quelle dei nemici, mettendo l’accento su quanto il confine tra bene e male sia in realtà sottile. il ronin Sanjuro, protagonista dell’omonimo film (1972), risolve un complesso intrigo tra clan rivali grazie all’astuzia e all’abilità con la spada, concedendosi spesso qualche deviazione dalla via del bushido, come l’alcol o l’inganno.
Passando a lungometraggi meno incentrati sull’azione, Barbarossa (1965) ci porta alla scoperta di un giovane dottore che comincia a lavorare in una clinica pubblica. Il tema portante del film è la relazione maestro-allievo, decisamente cara al regista e intesa nel senso più “giapponese” del termine: un rapporto più profondo di quello tra padre e figlio, fatto di insegnamenti saggi e soprattutto di esperienze condivise.
Bene, eccovi serviti. Sicuramente la lettura di questo articolo non basterà per potervi definire dei veri esperti di Akira Kurosawa, dato che per analizzarne tutti i temi e l’intera filmografia ci vorrebbero libri su libri. Speriamo però di avervi messo addosso un po’ di curiosità: iniziare a scoprire un mostro sacro del cinema mondiale come questo è obbligatorio per qualsiasi appassionato di cinema.