Cos’è la letteratura al femminile? Esiste davvero o è solo un agile recinto in cui rinchiudere le autrici, come panda in via d’estinzione?
gnuna, ognuno, ha le sue idiosincrasie linguistiche.
Che siano dettate da un uso pandemico di termini che debordano dal loro campo di applicazione – qualcuno ha detto resilienza? – da variazioni dialettali che finiscono per varcare i confini geografici – sì, l’uso disgiuntivo del piuttosto che – o dall’inarrestabile ondata di linguaggio inclusivo che spaventa così tanto gli italici professori da spingerli a imbracciare i digitali forconi delle petizioni online contro la preoccupante deriva della schwa, esistono locuzioni in grado di infastidire chi se le trova a tradimento davanti agli occhi o nelle orecchio.
Per me, quella locuzione aggettivale è al femminile.
Al femminile non vuol dire niente, ma viene usata per tutto: al femminile è una ricerca scientifica che conti più di una donna scienziata nel team, al femminile è un film, o una serie, in cui le personagge siano in maggior numero rispetto ai personaggi (mentre, in caso contrario, difficilmente si sentirà parlare di un film al maschile, perché la preponderanza degli uomini è sempre percepita come normalità); al femminile viene usato, in editoria, per qualsiasi opera porti la firma di un’autrice.
Una saga familiare al femminile, un racconto di formazione al femminile, una space opera al femminile. Un fantasy al femminile, poesia, saggistica, manualistica al femminile. Questa locuzione aggettivale imperversa ovunque: non esiste festival che non abbia in programma almeno un evento al femminile e articoli, podcast, post, abusano di un concetto che, in sostanza, non definisce assolutamente le opere di cui si va a parlare, anzi: far passare il messaggio che i libri scritti da autrici donne siano un genere a se stante non fa altro che legittimare prese di posizione come «no, la letteratura al femminile è un genere che non leggo».
La letteratura al femminile, però, non è un genere e ogni volta che si parla o si scrive di fantasy al femminile o fantascienza al femminile non si fa altro che costruire un recinto intorno a metà del mondo, con un’operazione che è spesso presentata come coscienziosa salvaguardia della diversità – come se fossimo una specie in via d’estinzione e non metà della popolazione mondiale – ma che nasconde un insopportabile paternalismo che spinge a prendersi cura delle donne, a presentarle sempre e solo in ambienti costruiti su misura per loro – loro autrici e loro lettrici, perché si sa che solo le donne leggono quello che scrivono le donne. Questo atteggiamento non può che confermare alle persone che leggono che la lettura di un libro scritto da una donna e di uno scritto da un uomo siano due esperienze diverse e che sia necessaria l’etichetta al femminile per rendere ben chiaro come questa sia una divergenza dal canone, che è sempre e comunque quello maschile.
Ma cos’è, dunque, questa fantomatica scrittura al femminile che accomuna tutte le opere scritte da autrici donne? Cos’hanno in comune Le teste del cerbero di Gertrude B. Bennett, La notte della svastica di Katharine Burdekin, Lingua Nativa di Suzette Haden Elgin, La mano sinistra del buio di Ursula K. Le Guin, se non il fatto di essere state per troppo tempo fuori catalogo (o mai tradotte prima) in Italia? Ve lo dico io: niente. Queste opere, pubblicate circa a vent’anni di distanza l’una dall’altra in un arco di tempo che copre il secolo scorso dal 1918 al 1984, seppur andandosi ad accomodare tutte nella nicchia della fantascienza, non hanno più elementi in comune di quanti ne avrebbero quattro romanzi di fantascienza scelti a caso tra quelli scritti da autori uomini. Eppure, se questi quattro meritevoli romanzi sono arrivati o tornati sugli scaffali delle librerie italiane, forse è in parte proprio merito della letteratura al femminile, che va di moda. Questo significa forse che tutto sommato esiste una letteratura al femminile?
No. Quello che esiste è il desiderio di nuove generazioni di lettrici e lettori di trovare in libreria storie che rappresentino il mondo intero e non solo una piccola parte di persone che è abituata a essere predominante. Storie scritte da autrici donne, uomini, non binari, persone queer, persone nere, persone che non abbiamo mai permesso che rientrassero in ciò che viene percepito come il canone occidentale. Ma tant’è, al momento siamo solo donne, e in quanto tali intercambiabili, tutte uguali, nessuna di noi inclusa nel canone – al massimo, tollerata in quanto moglie di – in grado di scrivere qualcosa di buono, sì, ma sempre al femminile.
Come possiamo scardinare questo canone se anziché irrompere con forza al suo interno ci limitiamo a crearci un nostro canone, separato, come il loro ma al femminile? Non potremmo invece lasciare nel dimenticatoio questo termine ombrello che fa acqua da tutte le parti e fare qualcosa di rivoluzionario, come parlare di libri scritti da donne senza avvisare il pubblico?
Se iniziassimo a parlare di autrici donne senza dover trovare una scusante per farlo, se ne parlassimo veramente come se fossero autori uomini, come se fosse normale parlare di libri a prescindere dall’identità di genere di chi li ha scritti (senza che questo diventi il solito lasciapassare per parlare, come al solito, di soli uomini), come cambierebbe la percezione di chi legge? Se al prossimo festival del libro, in un panel, venissero citate più opere scritte da donne che da uomini, senza che nel titolo del panel stesso comparisse la malefica locuzione, come reagirebbero le persone in sala? Chissà se si indignerebbero per non essere state avvisate, chissà se si sentirebbero raggirate o penserebbero di aver sprecato un’ora della loro vita per aver sentito parlare di letteratura al femminile o se, invece, iniziare a trattare le autrici allo stesso modo degli autori potrebbe disincentivare la netta e inesistente separazione tra le due letterature.