Alice in Borderland ha tutto il fascino del filone battle royale, con i suoi pregi e i suoi difetti
Con Alice in Borderland Netflix si avventura ancora una volta in quello che si è spesso rivelato un campo minato: l’adattamento live action di un manga. L’opera di Haro Aso, tuttavia, si presta molto meglio di altre a questo tipo di operazione, grazie all’ambientazione per lo più realistica e alla quasi completa assenza di elementi soprannaturali. Ecco perché il risultato è un prodotto assolutamente godibile, sebbene porti con sé i tipici pregi e difetti del genere a cui appartiene.
Alice in Borderland: Netflix non transige sui crismi del battle royale
Sopravvivenza, tradimenti, morti. Tante morti. Sono questi i principali elementi che caratterizzano il genere battle royale, molto popolare nei manga e nella cultura giapponese. Alice in Borderland non fa eccezione, rimanendo sulla falsariga di altri capolavori del genere come Osama Game, As The Gods Will o Battle Royale. I personaggi vengono trasportati in un mondo alternativo e sono costretti a partecipare a prove di difficoltà sempre maggiore. Solo chi vince sopravvive.
In Alice in Borderland queste prove si chiamano Game e la loro tipologia dipende dal seme della carta da gioco corrispondente, in riferimento al celebre romanzo di Lewis Carroll: le picche per i giochi basati sulle capacità fisiche, i quadri per i rompicapi, i fiori per il lavoro di squadra. I Game di cuori sono i più pericolosi ma anche i più interessanti, perché mettono alla prova i rapporti tra i personaggi e consentono allo spettatore di conoscerli più in profondità. Il fascino del genere battle royale risiede proprio nella possibilità di immaginare un ritorno dell’uomo allo stato di natura, inteso in chiave hobbesiana: amicizia, amore e società soccombono di fronte all’istinto primordiale di sopravvivenza, che porta a tradire, rubare e uccidere.
Alice in Borderland su Netflix: un’avventura in single player
Come abbiamo visto, Alice in Borderland rispetta tutti i crismi tipici del battle royale, ma si differenzia dalle altre opere del genere per un paio di caratteristiche. Osama Game e As The Gods Will hanno entrambe un protagonista ben riconoscibile, ma danno notevole risalto e spazio anche a molti personaggi secondari, che in alcuni casi possiedono storyline articolate. Non si può dire lo stesso per Alice in Borderland, che si focalizza unicamente su Arisu. Questo approccio può essere un’arma a doppio taglio: da un lato consente allo spettatore di empatizzare con il ragazzo e seguirlo nel suo percorso di crescita; dall’altro nega questa possibilità per tutti gli altri personaggi.
L’epopea di Arisu può inoltre essere interpretata come una metafora del passaggio dall’adolescenza all’età adulta. La sua vita normale, prima dell’inizio dei Game, è caratterizzata da spensieratezza, videogiochi e dalla compagnia degli amici d’infanzia. Una volta giunto nella Tokyo alternativa, il ragazzo deve imparare a fare tutto quello che la società chiede a un adulto: badare da solo al proprio sostentamento e portare a termine gli incarichi, anche se questo comporta tradire, manipolare o mettere fuori gioco gli altri.
Alice in Borderland su Netflix: qualche difetto
Alice in Borderland mantiene intatto tutto il fascino del battle royale, ma ne porta con sé anche un difetto fisiologico. I tre personaggi che conosciamo all’inizio, infatti, presentano le caratteristiche di tre cliché tipici della società giapponese. Arisu è la vergogna della sua famiglia: intelligente ma privo di ambizione, resta in casa a videogiocare, mentre il fratello conquista i genitori con i propri successi lavorativi. Karube è duro di comprendonio e impulsivo, preferisce il confronto fisico alle parole. Licenziato dal titolare del bar dove lavorava per una tresca con la sua ragazza, ha grande spirito di gruppo e non esita a sacrificarsi per gli amici. L’ultimo è Chota, il classico impiegato giapponese alle prime armi: insicuro, remissivo e piagnucoloso, fa da collante per l’intero gruppo.
Oltre agli stereotipi, Alice in Borderland sembra capire solo verso la metà della stagione come approfondire la conoscenza dei personaggi. Nelle prime puntate, infatti, c’è una quasi totale mancanza di riferimenti alla vita normale che i ragazzi facevano prima dei Game. Con l’allargarsi del pool di personaggi, però, la serie comincia finalmente a mostrarne passato e motivazioni. I flashback, alcuni toccanti e interessanti almeno quanto la trama principale, fanno la differenza perché consentono allo spettatore di capire meglio ciò a cui assistono, che a un tratto non sembra più così folle.
Alice in Borderland su Netflix: perché darle una chance
Se Netflix non ha fatto centro con Alice in Borderland, poco ci manca. Al netto di alcuni difetti fisiologici, infatti, la serie tratta dal manga di Haro Aso scorre fluida e regala diversi momenti memorabili. I Game sono ben pensati e sempre diversi grazie alla classificazione delle carte. Non mancano nemmeno i colpi di scena: per lo spettatore è infatti tutt’altro che facile arrivare alla soluzione degli enigmi prima che lo facciano i personaggi. Le scene d’azione lasciano poco all’immaginazione, con l’incursione di armi da fuoco e arti marziali, richiedendo qualche volta un minimo di sospensione dell’incredulità. La violenza è cruda e il sangue scorre a fiumi. Ultimi ma non ultimi, i cliffhanger: pur rimanendo abbastanza classici, centrano l’obiettivo e portano a cliccare compulsivamente sul tasto “Prossimo episodio”.
Con Alice in Borderland Netflix sfata il tabù degli adattamenti live action da manga, grazie a un’ambientazione più congeniale e a una trama che affascina e spaventa. Ci sentiamo di consigliare la serie agli appassionati del battle royale e a tutti coloro che sono in cerca di emozioni forti.