Scott ci racconta finalmente come nasce la creatura aliena più famosa della storia del cinema.
Non era un’impresa facile quella in cui si è lanciato Ridley Scott. Dopo aver ripreso in mano l’universo di Alien
da lui creato con Prometheus qualche anno fa, il celebre regista ci ha mostrato quanto articolata fosse la genesi dei famosi xemomorfi, e quanto profondo fosse il background dello Space Jockey, o quanto meno quello della sua specie. Quello che Ellen Ripley e l’equipaggio della Nostromo scoprirono nel pianeta LV 426, non era un Alieno “spiaggiato” a caso, sopraffatto da una generica forma di bestia intergalattica. C’era molto altro dietro. Ma, ove in Alien tutto questo era il punto di partenza, il MacGuffin, la causa e pretesto per fare cinema d’autore e di genere, per creare un’opera visivamente conturbante, per dare la propria visione di un cinema che fondesse l’horror e la fantascienza in maniera brillante e avanguardista per l’epoca (ma anche per oggi), con Prometheus l’intento era diverso, opposto se vogliamo: lasciare da parte la ricerca di un film a tutto tondo, un racconto circoscritto e autosufficiente da tessere intorno ad un grande film di genere, ma piuttosto espandere la storia in più cicli narrativi, ampliare i temi trattati e darci il primo pezzo di una storia il cui tassello finale sarebbe stato il prologo di Alien. Per farlo Scott con Prometheus ha scelto la strada di un blockbuster sci-fi più prolisso, ma meno inquietante e incisivo di quanto ci si poteva aspettare sul piano emotivo. Soprattutto, gravava il peso di essersi allontanati troppo da alcuni capisaldi del brand: l’atmosfera oscura, la brutalità e la presenza dell’immancabile icona della serie, lo Xenomorfo.
Alien: Coventant arriva con un gravoso compito, quello di dare un colpo alla botte e uno al cerchio. Continuare a narrare la storia di Prometheus, la quale, oltre a finire in maniera aperta, apriva talmente tanti quesiti che era impossibile non recuperarne gli avvenimenti. Trovare il bandolo della matassa in tale senso era doveroso, soprattutto verso tutti quegli spettatori che malgrado tutto si sono lasciati affascinare dalla “lore” del film prequel. Allo stesso modo, si doveva cercare anche di avvicinarsi di nuovo ai fan del brand Alien, nella sua definizione più “classica”. Infine, naturalmente, Covenant come tutti i film, doveva riuscire a recuperare anche una sua propria dignità personale, e rendersi in qualche modo un capitolo “unico”. Onde non perdere troppo il filo del discorso, diciamocelo subito, il nuovo film di Scott riesce sostanzialmente ad accontentare tutte queste esigenze, ma deve necessariamente abbandonare sogni di gloria ed eccellenza scontrandosi con i limiti degli obiettivi che si possono raggiungere in un’unica pellicola.
Il film si apre con il risveglio dell’equipaggio della nave Covenant, carica di embrioni umani e migliaia di persone in stato di criogenesi, il cui scopo è raggiungere un pianeta lontano per colonizzarlo. Durante il viaggio però si imbattono in un altro pianeta sconosciuto, simile alla Terra, un paradiso abbandonato che decidono quindi di esplorare per scoprire l’origine di un misterioso segnale radio proveniente da esso. Ecco quindi che con un incipit che strizza l’occhiolino al primo Alien, veniamo a conoscenza dei vari nuovi protagonisti, una serie di professionisti interplanetari che al di là del buon carisma di superficie, non verranno poi più di tanto sviscerati lungo la narrazione (alla stregua dei marines di Aliens per intenderci). A capo della “ciurma”, almeno spiritualmente (in realtà è la seconda di Christopher Oram, integerrimo Capitano della nave Covenant interpretato dal bravo Billy Crudup) c’è Daniels (Katherine Boyer Waterston) esperta di terraformazione e chiamata chiaramente a sostituire quella forte figura femminile carismatica -che è un po’ il laitmotiv della serie- impersonata prima da Ripley e poi da Elisabeth Shaw in Prometheus. Sbarcati sul nuovo pianeta, la vera protagonista diventa però la maestosa messa in scena di cui è capace Ridley Scott, bravissimo, sempre molto attento ai dettagli, alle panoramiche, alla scelta del punto di vista ma soprattutto, alla lenta creazione del senso drammatico che anche in Covenant sfocia con il terrore puro nell’incontro e successivo scontro, con la stirpe degli Xenomorpi e relativi “antenati”.
Tutto questo almeno nella prima metà di film però si alterna con quella parte che potremmo definire “Prometheus 2”, che racconta bene quali sono state le conseguenze e gli avvenimenti successivi a Prometheus, e che vede come protagonista indiscusso l’androide David. Non voglio scendere nei dettagli, non voglio rovinarvi alcun colpo di scena né svelarvi esattamente come passato e presente, vecchi e nuovi protagonisti, possano arrivare ad un’incontro nell’unione del tessuto narrativo dei due film, vi basti sapere che Scott getta nuove interessanti tematiche nel calderone, propriamente individuabili nel senso di esistenza e moralità che possono legarsi ad una intelligenza artificiale. Questioni ampiamente sviscerate in maniera affatto didascalica ma piuttosto elusiva, a volte sottile e interconnessa agli eventi preliminari del film. L’introspezione di David è forte e rimescola parzialmente le carte in tavola della saga, mettendo un sintetico al centro delle vicende, seppur spesso da dietro le quinte rispetto al “palcoscenico” principale. In questo Michael Fassbender è stato eccezionale, riuscendo a far trasparire pensieri ed emozioni appena percettibili da un “guscio vuoto” quale dovrebbe essere un robot, e riuscendo anche ad intrepretare il ruolo con un certo carisma. A lui il compito quindi di esplicare finalmente molte questioni legate alla razza degli Ingegneri, degli Xenomorfi, per capire come tra Prometheus e Alien del 1979, la storia sia andata dal punto a A al punto B. Il cerchio in tal senso si chiude e non si chiude, l’interpretazione di certi avvenimenti ha ancora molto spazio di manovra e certi espedienti per giustificarne altri non sono sempre a mio avviso troppo convincenti, ma questa rimane una opinione prettamente personale. Alien: Covenant però non si dimentica delle sue responsabilità. A inizio film ci promette una qualche sorta di ritorno alle origini, il look, la strumentazione di bordo e la tecnologia così “vintage”, il setting che va a creare è perfetto per il ritorno di un certo tipo di sequenze che abbiamo adorato nei primissimi capitoli della serie. E infatti queste sequenze ritornano, anche in questo caso fantastiche nell’attenzione morbosa riposta nell’allusione della brutalità e ferocia di questi parassiti che si annidano nei corpi umani per poi smembrarli, rinascere da essi e portare ulteriore morte. Allusione perché Covenant non indugia mai eccessivamente nel dettaglio raccapricciante, -questo non lo facevano nemmeno i capostipiti della serie- ma punta al solito “vedo non vedo” degli orrori.
Purtroppo però quello che si vede, non riesce ad essere intrigante e coinvolgente fino alla fine. Questo per colpa dei tempi che corrono, quelli in cui ormai siamo tutti estremamente più smaliziati rispetto a 30 anni fa (e perdonatemi i continui confronti e rimandi con gli altri episodi della saga, ma sono inevitabili). Gli alieni in Computer grafica inoltre, per quanto fatti bene, non potranno mai essere suggestivi come gli animatronics originali. Senza contare che come si diceva all’inizio, Covenant si divide tra due anime, quella “Prometheus 2” e quella “nuovo Alien”, e quindi non ha troppo tempo da dedicare allo spirito di sopravvivenza, al far maturare il terrore negli occhi dei protagonisti (a cui ci si affeziona difficilmente vista la solita deficienza congenita che li contraddistingue e che li porta spesso a fare la cosa sbagliata) e a tutti quegli accorgimenti scenici che ci avrebbero fatto amare molto di più il film a livello viscerale.
Verdetto
Alien: Covenant è a livello narrativo forse il film più maturo della saga, è un film intelligente, e meno emotivo. Laddove con maturità si intende la capacità di tratteggiare così bene un personaggio come l’androide David a livello introspettivo, a formire una spiegazione articolata dietro la cosmologia della saga, a dargli delle origini profonde e a proporre personaggi non eccessivamente sopra le righe. D’altro canto, il ritorno all’orrore, e quindi l’attenzione all’aspetto più coinvolgente ed appunto emotivo del film rimane una promessa insoddisfatta. Gli umidi, sporchi e unti corridoi claustrofobici e il pathos creato da una minaccia sempre più vicina rimangono ricordi di cui l’ultimo terzo di film ci da solo una sbiadita diapositiva. È un peccato, certo, ma forse va anche bene così, perché Covenant nel bene e nel male è altro. Non è il remake di un film già fatto (in stile “Il risveglio della Forza” per intenderci), è qualcosa di diverso. Ridley Scott, è evidente, ha abbandonato la via dell’Horror spaziale per creare un filone di fantascienza dark di più largo respiro, magnifico nella realizzazione, ma non altrettanto brillante, potente, e capace di reggersi sulle gambe da solo, come il cult da cui ha avuto origine. Sicuramente è un film che funziona meglio di Prometheus sotto tutti i punti di vista, ma rimane comunque “solo” il pezzo di un mosaico che brilla esclusivamente con una visione d’insieme.
Alien: Covenant è un film controverso e paradossale, un film che ha tutto al suo interno ma allo stesso tempo troppo poco, un film completo ma allo stesso tempo letteralmente senza capo né coda. Un bellissimo blockbuster, con una realizzazione magistrale, che non mancherà di intrattenervi e intrigarvi, ma che a conti fatti ci rivela quanto in realtà gli Xenomorfi facciano meno paura di quello che ricordavamo. Una realtà che dopotutto, un po’ ci delude.