Alien: In space no one can hear you scream
Alien sembra infinito come la location del suo franchise: lo spazio.
Ridley Scott infatti ha girato l’ennesimo film della saga, Covenant, sequel del prequel Prometheus , che abbiamo visto nelle sale nel maggio del 2017.
Intanto da qualche tempo i fan hanno dovuto segnare sul calendario una nuova data, poiché il 26 aprile è stato dichiarato ufficialmente come l’Alien Day, ovvero una giornata internazionale dedicata all’incredibile saga sci-fi.
I motivi di un simile successo vanno ricercati senza alcun dubbio nelle origini, e noi abbiamo voluto dare il nostro contributo emozionale all’elogio di questo brand famoso a livello planetario.
Perché Alien è diventato un cult?
Si possono dare molteplici spiegazioni circa il successo che la saga ha e continua ad avere (nonostante abbia indubbiamente perso un po’ di smalto), ma tra i motivi principali non possiamo che indicare l’incredibile e certosino lavoro del cast tecnico, partendo proprio da Ridley Scott che ha messo al mondo questa spaventosa creatura.
Alien, quello vero, quello del 1979, gioca su un paradosso che è un dettame della paura e dell’angoscia, cioè la capacità di essere un’opera altamente claustrofobica e a tratti nauseante in un contesto infinito come lo spazio.
Scott crea un ambiente quasi insonorizzato, in cui ogni minimo suono rimbomba, mantenendo così sempre alta la tensione, gestendo una soundtrack scioccante e schizofrenica in maniera egregia, cadenzata nei momenti in cui serve per generare ansia.
In quello spazio sconfinato, l’ambiente chiuso di un’astronave nella quale il buio la fa da padrone è l’habitat naturale del terrore; il paradosso che accennavamo in precedenza.
Da un prodotto del genere non ti aspetti, né pretendi un plot particolarmente sbalorditivo, anzi è proprio l’ordinarietà della trama a garantire la tensione e a non distogliere l’attenzione dello spettatore dalla succitata ansia, anche grazie al connubio sci-fi/horror, due generi filtrati al meglio dal maestro.
Questo turbinio di emozioni è il vero protagonista dell’opera, perché l’incontro-scontro con l’Alien viene continuamente rimandato, incrementando l’incubo sia nel pubblico che all’interno di quel bizzarro equipaggio.
Tornando al principio, ovvero a quella concezione paradossale di uno spazio claustrofobicamente serrato in un contesto infinito, l’idea di non potersi fidare di nessuno, né dei propri simili e tantomeno di un’entità aliena e spaventosa, è l’apoteosi del tormento.
Buongiorno, Mother
È qui che entra in gioco un terzo genere, una più che accennata sfumatura thriller che monta sulle spalle larghe e possenti dello sci-fi, su cui l’horror era già salito da tempo.
In tutto il film avvertiamo una difficoltà comunicativa e di fiducia, più generalmente tra essere umani e più genericamente, poi, tra uomo e donna. Per certi versi Alien vuole indicarci la sconfitta dell’uomo nei confronti della donna, e questo incredibile contrasto si vive in tutta l’opera crescendo di pari passo con la tensione. Tutto sembra un continuo richiamo a quanto enunciato, partendo dal computer di bordo, tale Mother. La madre dell’equipaggio, in un certo senso, ma non possiamo certo considerarla un buon genitore.
Potremmo continuare con la scena del “parto”, identificabile come una sorta di maternità opposta e con l’uomo usato esclusivamente come strumento per dar vita al mostro, ed esser poi gettato via.
Quindi lo stesso Alien altro non è che l’estrema esaltazione di questa sconfitta del maschio, corroborata dal fatto che l’unico componente dell’equipaggio a mostrare sale in zucca si dimostri Ripley, ovvero una donna. E il modo in cui si conclude l’opera è l’ennesima dimostrazione di quanto detto.
Eppure, dopo queste crude considerazioni sui particolari postulati (mal)celati in seno all’opera, siamo di nuovo al punto di partenza: è per questo che Alien è diventato un cult?
Assolutamente no. I motivi sono non sono riconducibili ad alcun significato, criptico o meno che sia, né a trame o sottotrame varie, bensì a tutto ciò di cui abbiamo parlato confusamente finora.
Confusamente perché è il caos dell’irrazionalità a mettere sul piedistallo Alien; quella più volte pronunciata claustrofobia, quel senso di terrore ed angoscia studiato nei minimi dettagli e spruzzato in quel ristretto spazio in cui ci ritroviamo tutti insieme: noi, l’equipaggio ed il mostro.
L’astronave Nostromo, in pratica, è il vero villain dell’opera: il guscio all’interno del quale si muove l’alieno e in cui ogni corridoio può nascondere una trappola o un ostacolo.
L’inconfondibile stile scottiano (che qui, tra l’altro, era al suo secondo film) edifica l’inquietudine, allentando il ritmo per poi farlo esplodere improvvisamente, e quando lo fa è di una completezza disarmante, con quel mostro che altro non è che un ricettacolo delle paure umane.
In questa perenne caccia gatto contro topo non è neppure il finale l’atto conclusivo, perché Alien non si conclude dopo la sua visione ma ti lascia addosso degli strascichi gravosi.
“Nello spazio puoi gridare quanto vuoi, ma nessuno ti sentirà “.
Del resto, sembra una triste allegoria della realtà disegnata per noi da Scott, con noi stessi soli di fronte a tutti a fare i conti con l’atroce condizione dell’essere umano.