Un buon film tratto da un buon manga, per cui nessuno però si strapperà i capelli
Parlare di Alita: angelo della battaglia non è semplicissimo. Non lo è perché chiaramente bisogna tenere in considerazione l’opera originale, il manga del 1990 di Kishiro, nonostante credo sia sbagliato il volere analizzare un qualsiasi prodotto derivato soltanto in rapporto all’opera madre, per motivi che sembrano anche abbastanza ovvi: il momento storico, i linguaggi diversi e il target diverso ad esempio sono quelli che mi appaiono più importanti. L’altra questione che rende un po’ difficoltoso cercare di dare un giudizio è l’arco narrativo trasposto su pellicola da Rodriguez: la prima parte di Alita è piuttosto povera di contenuti, e semplicemente serve per costruire l’universo in cui si muovono i personaggi. Inoltre il ritmo del manga è, per questioni editoriali, molto diverso rispetto a quello del film. Se nel manga ci sono molte microstorie che si susseguono, Rodriguez ha saggiamente pensato di prenderle tutte e di mischiarle, ottenendo con il film un prodotto molto più coeso e organico, ma soprattutto molto più efficace. Il risultato, diciamolo subito, è un buon film che fa buon intrattenimento, lasciando però poco o niente a fine proiezione. Ci si affeziona poco ai personaggi e ci si affeziona poco allo scenario post apocalittico. Certo, il cliffhanger finale lascia con la voglia di vedere il sequel che ovviamente vedrà la luce, ma è l’unica cosa che rimane delle circa due ore di proiezione.
Sono partito dal giudizio, quindi è bene fare un passo indietro e vedere di cosa parla Alita: angelo della battaglia: ci troviamo nel futuro, in una città discarica posta al di sotto dell’unica città fluttuante ancora esistente, Salem. Qui il dottor Ido (Christoph Waltz) trova la testa di un cyborg, che installa successivamente su un corpo robotico. Alita (Rosa Salazar) è il nuovo nome della ragazza, che ben presto scoprirà di avere una particolare propensione istintiva al combattimento, nonostante la sua totale amnesia non le permetta di ricordarne il motivo. Quando combatte però ha dei flashback che le fanno ritrovare per poco qualche barlume della sua vita precedente. Le vicende che seguono vedono svilupparsi la consapevolezza di Alita rispetto al suo corpo e al suo passato, mentre scopre l’amore e gli intrighi che si celano dietro alla misteriosa città sospesa. Rodriguez si prende le sue libertà nei tempi in cui si aprono nuove sottotrame, allontanandosi come si è già detto dallo schema rigido del manga. Nel momento in cui il film si interrompe abbiamo molti più elementi su Salem e sul passato di Alita di quanti non ne abbiamo leggendo il manga, e in fondo va bene così, e anzi sotto alcuni punti di vista la costruzione dell’universo narrativo e del personaggio funziona meglio in questo modo.
Dove invece il film perde molto è nella crudezza della società della Città Discarica. Nel manga l’efferatezza è al massimo, con uno dei primi villain (Makaku) che addirittura è dipendente dalle endorfine e quindi mangia il cervello degli esseri umani. Tutta questa violenza è stata rimossa dal film, pesando eccessivamente sul tratteggio di questa discarica di esseri umani. Makaku (qui chiamato Grewishka) perde totalmente spessore, diventando un semplice energumeno violento, piuttosto che un prodotto della società in cui è nato. Come detto in apertura, è sbagliato analizzare un film filtrando tutto attraverso la lente dell’opera originale. D’altra parte però bisogna cercare di capire quanto sia rimasto intatto dello spirito di quell’opera prima, e non per qualche tipo di riverenza verso le grandi glorie del passato, ma semplicemente per capire se il discorso originale esista ancora in quello che ne è derivato. Nel caso di Alita, è grave non aver potuto (o voluto) rappresentare l’estrema violenza del manga anche sul grande schermo, perché proprio la violenza definiva il mondo realizzato da Kishiro. Il fatto che i ragazzi rubino parti a caso dei cyborg, e non la colonna vertebrale (nel manga unico pezzo non ricostruibile artificialmente), depotenzia enormemente la rappresentazione di quello che si è capaci di fare per fuggire da una situazione limite come può essere la Città Discarica.
Il problema qui è che nella sua prima parte Alita è un manga debole. Lo ho già detto, ma è bene ripeterlo. È debole non perché sia noioso, anzi, ma è debole perché è un racconto sci-fi piacevole con pochissime tematiche, se non la violenza come costante del mondo di Kishiro. Il film che ne risulta non poteva chiaramente andare più in alto del manga, non poteva inventare quello che non c’è. In questo modo Alita (film) è simile ad Alita (manga): è ottimo intrattenimento, ma lascia poco se non il ricordo di qualche bella scena d’azione. In qualche modo non c’è il problema che mi ero posto prima di vedere l’adattamento di Ghost in the Shell (qui), ma non c’è neanche quella piacevole sorpresa di aver trovato l’adattamento stesso realizzato meglio di quanto non mi aspettassi (qui).
Il problema, ammesso che abbia veramente senso dare delle risposte piuttosto che farsi delle domande, è se promuovere l’operazione di Rodriguez e Cameron. Certamente il film è ben confezionato: gli effetti speciali sono fantastici, il ritmo è costante e incalzante, e soprattutto non è possibile non promuovere come Rodriguez abbia lavorato per amalgamare i diversi blocchi del manga.
Manca però come osservato quella crudezza che contraddistingue il manga, e che quindi è un po’ il cuore dell’opera originale. Alita è piacevole da vedere, non annoia mai, è ricco di colpi di scena – per chi non ha letto il manga – e spesso tiene sull’orlo della sedia nelle scene più concitate. La domanda è cosa vi rimarrà una volta usciti dalla sala.