Il nuovo distopico puzzle di Netflix
Dopo qualche anno di buio, la distopia torna a mettersi in luce sul grande e piccolo schermo. C’è stato il discusso ma convincente Blade Runner 2049 di Villeneuve, la serie TV Philip K. Dick’s Electric Dreams, ed ora anche Netflix ci mette la firma, distribuendo (dal 2 febbraio) Altered Carbon, show di 10 episodi di circa 50-60 minuti ciascuno, creato da Laeta Kalogridis ma basato sul romanzo Bay City di Richard K. Morgan.
Siamo nel 2384 e l’intera esistenza dell’essere umano, la sua identità, i suoi ricordi, le sue emozioni e tutto il resto, possono essere conservate all’interno di una “pila” impiantata nella colonna vertebrale, e ciò permette alle persone di sopravvivere alla morte fisica, facendo in modo che tutto ciò venga trasferito in una nuova “custodia”, donando loro una sorta di immortalità.
Takeshi Kovacs (Joel Kinnaman) è un ex membro di speciali unità militari, ma viene ucciso e scaricato nel corpo che era in precedenza di Elias Ryker, un agente di polizia di Bay City. Questo passaggio avviene per volere di Laurens Bancroft, ricco e potente aristocratico ultracentenario, che si è apparentemente suicidato ed ha perso tutti i ricordi delle 48 ore antecedenti la morte. Bancroft ritiene di esser stato ucciso e così ingaggia Kovacs per indagare sulla vicenda. Da qui inizia la complicata storia narrataci dai 10 episodi di Alterd Carbon.
Il “nuovo” Kovacs viene trasferito quindi in un uomo alto, grosso e dall’aspetto caucasico e ad accoglierlo trova una incredibilmente distopica San Francisco, che ora è nota appunto come Bay City, e lo spettacolo visivo che si palesa dinanzi agli occhi del soldato è lo stesso che si manifesta allo spettatore.
L’estetica rappresenta il vero punto di forza di Altered Carbon, ed in questo sono molto forti i rimandi al Blade Runner di Ridley Scott prima e al 2049 di Villeneuve poi, con dei colori ed una fotografia che lasciano a bocca aperta ed una scenografia estremamente curata, con minuzie che diventano maniacali col passare delle puntate. La rappresentazione visiva vive di un fortissimo contrasto tra il mondo esterno, grigio, sporco, piovoso, illuminato solo dai quei neon che rappresentano un indissolubile cliché del mondo cyberpunk e gli interni accesi e psichedelici che danno la perfetta sensazione dell’avanzamento tecnologico.
Tale contrasto mette in moto anche un parallelismo con quello che la società sta vivendo, ovvero le forti diseguaglianze tra ricchezza e povertà, in un’accezione quasi allegorica, con i ricchi che risiedono in sfarzose dimore al di sopra delle nuvole e i poveri costretti a sopravvivere in case costruite sul fangoso terreno di Bay City. Ma il progresso tecnologico ovviamente ha generato di peggio: gli umili lavoratori, in caso di morte, devono accontentarsi di quello che l’assicurazione gli concede, con bambini che si “reincarnano” in corpi di anziani, provocando una sensazione profondamente disturbante e scioccante anche nello spettatore. A ciò, naturalmente, si contrappone la realtà dei Mat, cioè i ricconi come Bancroft, che possono permettersi cloni di se stessi ed effettuano temporaneamente backup per salvaguardare le informazioni in caso di necessità.
Se l’aspetto estetico ed il messaggio di fondo sono gli elementi che convincono maggiormente, non si può dire lo stesso del modo in cui l’opera viene sviluppata.
Si faticherà non poco infatti per entrare a far parte passivamente del mondo di Bay City, poiché lo show ci catapulta in questa dimensione senza fornirci adeguate spiegazioni ma anzi bombardandoci di informazioni altamente complesse, dando vita ad un puzzle intricato che spesso non riusciamo a collegare.
Per metà della serie vi troverete a vagare in un folle trip in cui si susseguono nomi di persone, di cose, di personaggi, di accadimenti, e ognuno di questi vi sembrerà “strano” e impossibile da connettere. Cinque puntate per iniziare a mettere i primi punti sono indubbiamente troppe, e il modo in cui gli altrettanto successivi episodi di sviluppano non possono qualificare l’opera come assolutamente riuscita.
Di certo gestire un universo narrativo così vasto ed articolato non è semplice, né vogliamo dire che sia tutto da buttare. Altered Carbon è pieno zeppo di trovate geniali, molte delle quali sono tuttavia frutto della mente di Morgan, e che Kalogridis è comunque abile a trasferire nello show (a proposito, ma quanto è fica la pistola coi proiettili boomerang?), ma la troppa carne al fuoco genera molto fumo e poco arrosto, impegnando eccessivamente lo spettatore in uno stancante viaggio verso una meta che poi raggiungerà con fatica, riscontrando una disarmante banalità di fondo.
Se avessimo voluto operare di taglia e cuci, per portare l’opera sul grande schermo in un film di circa un paio d’ore sarebbe stato senza dubbio possibile ed il risultato ugualmente inefficace, ma ci saremmo risparmiati tante ore di tortura psicologica.
Il demerito dell’imparziale fallimento non va di certo riscontrato nel cast artistico, che anzi si dimostra sempre all’altezza. I personaggi e le loro storie sono probabilmente il motivo di principale interesse, e il fatto che le sottotrame diventino più importanti della trama di base è senza dubbio il sintomo che qualcosa non sia stata eseguita correttamente.
Kinnaman è assolutamente credibile e il suo fisico imponente e lo sguardo minaccioso lo rendono la perfetta macchina da guerra di cui Altered Carbon aveva bisogno. I complimenti vanno anche alle sue controparti femminili, ovvero Martha Higareda che qui diventa Kristin Ortega, l’agente di polizia che aveva una relazione con Rykes e poi Reileen (Dichen Lachman), sorella di Kovacs. Entrambe dimostrano attitudine e disinvoltura su un set instabile e pericoloso, ma si muovono bene e garantiscono anche un’elevata dose di sensualità, laddove la passione e il sesso in tutte le sue forme diviene uno dei punti nevralgici della narrazione, in una Bay City che è a tutti gli effetti la terra del vizio.
Dopo cinque puntate di caos iniziamo quindi a comprendere la struttura di Altered Carbon, ma ciò che vediamo non sempre ci piace. Da qui in poi avremo a che fare con un andirivieni tra i flashback e una narrazione frammentata e con una forte componente dell’alterazione temporale, che però viene amministrata in modo un po’ raffazzonato e non coinvolgente, e così quando iniziamo a capire di più, ad avere informazioni sul background dei protagonisti, il tutto ci viene a noia, sia a causa di una fase precedente che non è riuscita a stimolare adeguatamente lo spettatore, sia per un racconto che non porta sulla scena nulla di entusiasmante, al punto che quasi preferivamo continuare a non capire nulla.
Altered Carbon è un tentativo complesso e maldestro di mettere in piedi un’opera monumentale, ma si perde nella grandezza delle sue idee, nel labirinto di un universo narrativo dalle troppe sfaccettature, regalandoci una bellissima visione di un’occasione mancata.