L’ascesa di un nuovo dio?
Stiamo forse vivendo un periodo d’oro per i serial televisivi? Domanda legittima: dopotutto le emittenti nell’ultimo periodo si stanno lasciando andare a nuove storie e nuovi metodi d’intrattenimento che concedono allo spettatore d’incontrare quasi certamente il proprio gusto. Il panorama è talmente ampio che è difficile non trovare un genere di serie TV capace di fornire al più ostico degli spettatori l’intrattenimento che ricerca. In questo, complice l’apripista Game of Thrones, il fantasy si è scavato una nicchia sempre più ampia e solida. Non che tutte le opere siano state di alto livello, e pure il lavoro di Weiss e Benioff ogni tanto ha subito dei cali. Ma è facile pensare che, senza il Trono di Spade, non saremmo di fronte a quello che oggi promette di essere un vero e proprio gioiello nell’intrattenimento televisivo. Stiamo parlando, ovviamente, di American Gods, opera ispirata al celebre libro di Neil Gaiman, maestro del genere fantasy, basata sul confronto tra le vecchie divinità (Odino, Anansi, Chernoborg) e quelle nuove (Televisione, Internet, Mass Media).
Le settimane che hanno preceduto l’uscita di questo nuovo serial hanno portato con sé le ottime impressioni registrate dalla critica americana. Le aspettative erano altissime e la domanda che si ponevano tutti, lettori e non di Gaiman, era se esse sarebbero state rispettate. A questo si somma la storia di alti e bassi di questa trasposizione televisiva: annunciata come pellicola cinematografica, modificata in film per la TV, poi cancellata e trasferita all’emittente Starz che ne ha annunciato la serie. Tutto ciò ha fatto penare per qualche tempo i lettori di Neil Gaiman, che hanno seguito col fiato sospeso l’evolversi della vicenda. Vicenda che però, al momento, sembra giunta a un lieto fine.
Il divino è nei particolari
La serie si apre con un uomo distinto (probabilmente Mr. Ibis) intento a scrivere su un grande libro una storia, un arrivo in America. Vediamo così una nave vichinga, ormai priva di provviste, disperata, in cerca di un posto dove sbarcare. La terra su cui sbarcano, purtroppo, è ostile, il terreno è arido e gli indigeni sono spietati. Non resta che tornare a casa, ma il vento non è propizio. Non resta che pregare, e pregare sempre di più, con maggiore intensità. Finché il loro dio, Odino, finalmente non li ascolta di fronte all’unico tributo che conosce: la guerra.
Già da questi primi momenti American Gods colpisce per la fotografia e per la scelta di dare risalto a minuscoli dettagli all’interno della trama. Ma non solo: ci troviamo di fronte a una scena che in una manciata di minuti riesce a incarnare perfettamente lo spirito del libro di Gaiman, quel concetto per cui è la venerazione umana a creare il dio, a renderlo presente e dargli forma e sostanza. La fede degli uomini plasma la divinità, creandola “a propria immagine e somiglianza”. Ma, soprattutto, secondo regole ben precise.
I particolari della pira sacrificale che arde, gli schizzi di sangue talvolta esagerati, l’impennaggio delle frecce e i colori freddi, spesso smorti, contribuiscono a creare un’atmosfera che non esitiamo a definire crepuscolare, preannunciando quello che sarà il tema dell’intera serie: un ciclo di fine e inizio. Tutto, in questa trasposizione di American Gods, sembra giocarsi sui dettagli. Una targa, una scritta in un gabinetto pubblico, un vestito e una moneta possono nascondere una serie di significati molto più profondi di quanto di ci possa aspettare. Neppure le musiche che vengono scelte o l’uso delle immagini a rallentatore sembra essere casuale e spinge lo spettatore a rimanere incollato allo schermo.
Iniziamo a fare conoscenza dei protagonisti in una prigione americana come tante, costruita in mezzo al deserto, con delle recinzioni che dividono i detenuti dal mondo esterno, così che questi decidono di trascorrere il tempo come nella più classica delle carceri degli States: giocando a basket, facendo pesi e distribuendosi in capannelli accomunanti dall’odio e dalla diffidenza verso altri gruppi. E qui, isolati, si trovano Shadow Moon (Ricky Whittle) e Low Key Lyesmith (Jonathan Tucker). I due, amici e compagni di cella, dialogano tra loro, in quella che potrebbe essere una delle loro ultima conversazioni. Shadow uscirà dal carcere entro cinque giorni, tornando a un mondo dove lo attendono la moglie Laura (Emily Browning) e l’amico Robbie, che gli ha già trovato un lavoro.
Da questo breve scambio emergono subito le caratteristiche dei due personaggi e il modo in cui gli attori si applicano ad essi. Da un lato c’è Whittle, serio e composto, quasi ingessato e poco espressivo, scelta che però ricalca bene il personaggio di Shadow così com’era nel romanzo, un uomo che non desidera essere disturbato e che per questo cerca di non farsi coinvolgere da passioni troppo accese. E, dall’altro lato, Tucker, istrionico, che mostra una gestualità e una mimica facciale splendide, perfette per il ruolo che è chiamato a interpretare.
La situazione di Shadow si evolve rapidamente: viene contattato quella notte stessa a causa della morte della moglie e rilasciato in anticipo per partecipare al funerale. Nel suo viaggio verso casa incontra un vecchio truffatore, il quale si presenta solo come Mr. Wednesday, interpretato da un Ian McShane in grande spolvero. L’uomo gli propone di lavorare per lui, cosa che Shadow rifiuta, salvo poi cambiare idea quando scopre quella sera, dallo stesso Wednesday, che anche Robbie è morto nello stesso incidente della moglie. Al verde, senza altre opzioni, l’uomo accetta di seguire Wednesday, del quale però intuisce di non doversi fidare del tutto.
Se non si fosse capito, il primo impatto con American Gods è positivo sotto molti punti di vista. Se l’interpretazione di Whittle può creare qualche incertezza (anche se tutto sommato le sue doti recitative e il personaggio di Shadow sembrano sposarsi bene), il resto del cast sembra perfettamente calato in questa realtà e si dimostra di grandissimo livello, proponendoci uno show da non perdere. I lettori di Gaiman si troveranno perfettamente a loro agio in questa realtà, vivendo con gioia la sensazione di familiarità data dalla trasposizione. I nuovi spettatori, invece, potranno godersi una serie di interpretazioni magistrali, delle scenografie perfette e scene in cui niente è lasciato al caso.
Tra gli interpreti, su tutti spiccano Tucker e McShane, capaci di dare espressività e spessore ai loro personaggi con poche scene a disposizione, ma non è da sottovalutare nemmeno l’interpretazione degli altri attori, che contribuiscono a creare nell’universo che ruota attorno a Shadow uno scenario pittoresco e variegato, dove si uniscono elementi di mitologie molto diverse.
In questo la trasposizione scritta da Fuller e Green sembra riprendere al 100% quello che è il romanzo, senza nemmeno risparmiarsi scene più crude e “forti” (Bilquis, tanto per dirne una). La bellezza di questo American Gods è il suo essere così “gaimaniano”: pure in un contesto fantasy, l’autore non si è mai limitato a far avvenire le cose per caso o far compiere gesti insensati ai propri personaggi. Così, anche nella scena in cui Shadow sembrerebbe pronto a replicare i fasti di tanti personaggi pronti a toccare con mano sostanze aliene sconosciute, il comportamento del protagonista appare razionale, ponderato. Nessuno dei gesti dei personaggi è casuale, ma questo apparirà evidente soprattutto a chi ha già letto il libro.
E proprio con i lettori sembrano giocare Fuller e Green, iniziando una sceneggiatura che strizza più volte l’occhio ai fan di Gaiman (e non solo, è bene ripeterlo, attenti ai dettagli). Al momento, la trasposizione degli eventi dal libro alla serie televisiva sembra assolutamente perfetta. La vera domanda è se tutto questo proseguirà. La serie, per ora, conta solo 8 episodi annunciati e una singola stagione. Da un lato sembra difficile riuscire a inserire tutti gli eventi del romanzo in un numero così scarso di puntate e l’impressione, d’altro canto, sembrerebbe quella di inserire anche spunti assenti nel romanzo. Tra i personaggi annunciati, infatti, compaiono anche Vulcano e Gesù, che non erano parte dell’opera di Gaiman. La deviazione dalla strada originale, quindi, sembra probabile, anche se l’importante sarà (o dovrà essere) sempre mostrare di averne mantenuto lo spirito alla base.
Cosa ci è piaciuto?
Praticamente tutto: la fotografia, l’interpretazione del cast, la sceneggiatura e il modo in cui sono stati scritti i personaggi. Pure i molti riferimenti alla cultura pop, che ben si possono sposare col contesto della vicenda.
Cosa non ci è piaciuto?
Difficile dirlo, sarebbe come cercare il pelo nell’uovo. L’unica preoccupazione è data dalla forte possibilità che la trama prenda una piega profondamente diversa rispetto al romanzo, ma se questo non inficiasse la qualità dello show, potrebbe non essere per forza qualcosa di negativo.
Continueremo a guardarlo?
Assolutamente sì: American Gods si preannuncia come una delle serie più promettenti di questa stagione. Il primo episodio, sceneggiato e diretto magistralmente, invoglia tutti, lettori di Gaiman e spettatori neofiti, a continuare a guardare questa serie.