Una delle armi principali del conflitto: la persuasione
Per chi non mastica il giapponese, la frase che dà il titolo a questo articolo vuol dire “i cani dell’America”, e appare nella locandina di Momotarō no omiwashi (Momotarō e le sue aquile dei mari), un cortometraggio animato del 1942. L’opera non è altro che un modo per celebrare l’attacco aereo andato a segno contro la base americana di Pearl Harbor. In una parola, propaganda.
Uno degli aspetti più affascinanti della Seconda Guerra Mondiale è la demonizzazione del nemico da parte delle potenze belligeranti. Così l’America ritrae sulle sue riviste Rosie la Rivettatrice che schiaccia il Mein Kampf, la Germania nazista vieta il jazz afroamericano alla radio, mentre il Giappone mostra ai suoi cittadini i pericoli provenienti dall’Occidente. In merito a ciò, Stati Uniti e Gran Bretagna devono essere sconfitti per instaurare un nuovo ordine mondiale libero dalla corruzione e dall’avidità.
Desiderio di riscatto
Per comprendere le ragioni che hanno portato alla nascita di sentimenti anti-occidentali tra i giapponesi, dobbiamo tornare alla Prima Guerra Mondiale, poiché la fine del conflitto mette in evidenza la poca incisività del paese sul piano internazionale, dove al contrario Stati Uniti e Gran Bretagna hanno un potere decisionale più ampio. Inoltre, nel 1924, l’America di Franklin D. Roosevelt decide di attuare forti restrizioni ai migranti provenienti dal Giappone, in quanto l’alto numero di abitanti di origini nipponiche – siti in particolare modo in California – non è ben visto dalla popolazione bianca, fortemente razzista.
L’iniziativa viene accolta come una grande onta tra i giapponesi, specie tra quelli dell’establishment politico, che capiscono di avere poco margine di azione in politica estera a causa di uno snobismo tipicamente occidentale. In relazione al senso di inferiorità nei confronti delle potenze occidentali, vi rimandiamo all’approfondimento su Code Geass.
Neppure la situazione interna aiuta a mitigare questo astio: nonostante l’incredibile ripresa dalla crisi del 1929, da cui è scaturita una forte urbanizzazione e crescita economica, il Giappone resta un paese fondamentalmente rurale. I contadini vivono con timore la crescita delle città, viste come anonimi conglomerati in cui troviamo persone dedite a un insano individualismo e materialismo di stampo americano o europeo. Questa visione è condivisa dai militari, che in quegli anni tentano di appropriarsi del controllo della nazione.
Malcontento nelle campagne, nell’esercito, violenza dilagante foraggiata dall’estrema destra: tre spaccati della società che rappresentano la maggioranza della popolazione e che vedono nell’altro la causa dei loro mali. Nel paese si afferma sempre più le necessità di mostrare al mondo intero la grandezza di cui è dotata il Giappone. Per farlo, la prima mossa è la liberazione dell’Asia dal giogo occidentale.
Inizia dunque a concretizzarsi il progetto della Sfera di co-prosperità della Grande Asia Orientale, vale a dire il Giappone come cavaliere che avrebbe liberato il continente asiatico dalla colonizzazione europea e americana. I più radicali sognano addirittura uno scontro finale tra l’Ovest, rappresentato dagli Stati Uniti, e l’Est, rappresentato dal Giappone. Solo con la sconfitta del male supremo potrà nascere un mondo libero dai pericoli della modernità. Inizia così l’escalation militare da parte della nazione: nel 1931 l’esercito giapponese conquista la Manciuria. Nel 1937 arriva nella capitale cinese dell’epoca, causando quello poi diverrà noto come “il massacro di Nanchino”. Sebbene i giapponesi soffrano il razzismo occidentale, dal canto loro non sono più magnanimi nei confronti dei cinesi, coreani, filippini.
Risale allo stesso anno la pubblicazione di Kotaku no Hongi, ovvero i “Principi fondamentali della nazione”. Si tratta di una sorta di solenne manifesto incentrato sul rapporto tra l’imperatore e i sudditi. A differenza del modello occidentale, che vede un contratto effimero tra sovrano e cittadino (il singolare qui è fondamentale per comprende il disprezzo giapponese nei confronti dell’individualismo), in Giappone popolo e regnante sono uniti da un legame naturale, persino paterno. Per questo servire l’imperatore – e dunque la nazione – non è semplicemente un dovere, ma è l’essenza della vita. Dopo la pubblicazione, il testo diventa obbligatorio nelle scuole, portando a un indottrinamento non solo delle masse, ma anche degli intellettuali.
Cresce l’attaccamento alla patria, il senso di rivalsa nei confronti degli occidentali, soprattutto degli Stati Uniti. In questo senso, il 7 dicembre 1941 è un giorno chiave: il Giappone attacca a sorpresa, con un raid aereo, la base americana sita a Pearl Harbor, nelle Hawaii. Con la Seconda Guerra Mondiale già in corso da due anni, e forte dell’alleanza con la Germania e l’Italia, il Giappone di Hirohito trova il coraggio di affrontare apertamente il suo avversario principale. L’azione provoca l’entrata in guerra degli Stati Uniti, interpretata come un gesto vile e meritevole della risposta più dura. La guerra quindi si apre anche nel Pacifico.
Gli anni successivi all’attacco di Pearl Harbor vedono il Giappone in netta inferiorità rispetto alla potenza militare americana, ma l’indottrinamento iniziato negli anni Trenta, l’idea sempre più radicata di un disegno divino che vede l’impero del Sol Levante custode dell’ordine mondiale e il forte desiderio di riscatto internazionale rendono il Giappone un nemico ostico, particolarmente odiato dai soldati americani costretti a combattere contro kamikaze e fanatici patriottici nelle isole del Pacifico.
Del resto, servire l’imperatore e la nazione, a costo della propria vita, è la gloria più grande. I kamikaze sopramenzionati ne sono la prova. Si diffonde persino ansia in chi non può dimostrare il suo attaccamento alla nazione morendo in guerra. Il paese però è ormai ridotto allo stremo, e con il lancio dell’atomica su Hiroshima e Nagasaki nell’agosto del ‘45, e la successiva dichiarazione di guerra dell’Unione Sovietica di Stalin, il Giappone è costretto a “sopportare l’insopportabile” e arrendersi.
L’eroico Giappone di Momotarō e Norakuro
Agli inizi degli anni ’30 c’è ancora una certa libertà d’espressione e, anzi, lo stile americano sembra affascinare gli animatori giapponesi. Una delle ultime opere trasmesse nei cine-giornali è Entotsya Perô, Lo Spazzacamino Perô, di stampo pacifista. Dopo l’occupazione della Manciuria e la svolta autoritaria del paese, viene attuata una forte censura, mentre cinema e animazione diventano dei rami dell’establishment politico.
Personaggio cardine della propaganda animata giapponese è Momotarō, bambino celebre nella cultura giapponese, in quanto secondo la tradizione pare sia nato da una pesca gigante e sia capace di sconfiggere i demoni. Un simbolismo che ben si presta a rappresentare il ruolo del Giappone contro i mali occidentali.
L’opera più riuscita sul personaggio di Momotarō è senza dubbio quella proiettata nel 1942, citata all’inizio di questo articolo. Nei 37 minuti di animazione – una durata incredibile per l’epoca – il bambino, raffigurato in maniera solenne e carismatica, guida la sua armata di animaletti in un poderoso attacco aereo contro dei nemici. È interessante notare le linee sofisticate della figura di Momotarō che si discostano da quelle più tonde e tenere dei vari coniglietti e scimmiette della sua armata, che a loro volta si discostano da quelle palesemente ispirate a Braccio di Ferro, per far capire in maniera chiara che i nemici sono gli americani.
Al di là di Momotarō, in generale i corti animati giapponesi utilizzano principalmente figure antropomorfe di animali, per potere diffondere un certo tipo di ideologia senza alcun vincolo, oltre al fatto di potersi rivolgere soprattutto ai giovani. Tra gli esempi di mascotte animate propagandistiche citiamo Norakuro, il cane da guerra. Anche sul versante cinema, la produzione di film è serrata e dedicata esclusivamente alla rappresentazione della grandezza giapponese contro stolti nemici.
Risale al 1942 La storia del Comandante Nishizumi, commissionato dal Ministero della Guerra giapponese, in cui il protagonista sacrifica la propria vita per i suoi uomini in battaglia durante la guerra con la Cina. Per il suo sacrificio, viene onorato con il titolo di gunshin, dio militare. Estremamente colma di pathos la scena della morte di Nishizumi, i cui ritmi solenni e drammatici evidenziano la gratificazione di morire per la nazione e l’imperatore.
Concludiamo questa panoramica nella propaganda giapponese citando La Guerra dell’Oppio, film del 1943. In esso non c’è il Giappone, ma viene rappresentata la Guerra dell’Oppio combattuta tra Gran Bretagna e l’impero cinese nel 1839.
Scelta sapiente volta a demonizzare gli inglesi come usurpatori del benessere asiatico, la cui povera vittima è la Cina. La pellicola è una sorta di metafora volta a dimostrare la necessità dell’intervento giapponese per la liberazione dell’Asia dalla bramosia in questo caso europea.
Quanto abbiamo detto sinora dimostra la poderosa macchina ideologica e propagandistica nipponica, che ha spinto un’intera nazione al sacrificio più duro, culminato con l’atomica.
È chiaro che sotto la politica espansionistica del Giappone, avviata negli anni ’30 e proseguita per tutti gli anni ’40, ci sia la necessità di rispondere al malcontento generale, in quanto il paese è strettamente dipendente dalle esportazioni di materie prime.
Hirohito e il suo staff politico sono stati capaci di indottrinare il proprio popolo spingendolo a dare il massimo per un disegno superiore. È proprio questo lo scopo della propaganda, elevare azioni che altrimenti sarebbero barbare, come gli stupri a Nanchino o i campi di concentramento americani dedicati ai giapponesi, per creare un immaginario nazionale tramite la produzione culturale e avere il pieno sostegno dell’opinione pubblica.
Fonti:
– Kenneth G. Henshall. Storia del Giappone, Edizioni Mondadori
– Guido Tavassi, Storia dell’animazione giapponese. Autori, arte, industria, successo dal 1917 a oggi, Tunuè.