Dopo la laurea mollo… o forse no
opo anni passati a sbattere la testa contro un muro fatto di kanji, regole grammaticali e professori madrelingua rigidissimi, mi sono laureata in lingua giapponese. Chi lo ha studiato all’università come me forse capirà: per tutto il tempo, di tanto in tanto, faceva capolino in un angolo della mia mente un pensiero: se mai ce la farò a laurearmi, io il giapponese lo mollo. Lo studio della lingua di un Paese cui volgo lo sguardo sin dall’infanzia, grazie ad anime e manga, si stava facendo a tal punto insostenibile.
Dopo la laurea mi sono quindi gettata a capofitto nel percorso di studi successivo, completamente diverso. All’alba del 2022, però, sorge un altro pensiero: ma una certificazione linguistica non vuoi prenderla?
Il Japanese Proficiency Language Test si svolge in pochi Paesi, tra cui fortunatamente l’Italia. Cominciando ora, mi sono detta, avrei tempo fino a dicembre, quando si terrà il prossimo appello. Nel frattempo avevo anche continuato a guardare anime e dunque a sentire la lingua giapponese, ad apprezzarne il suono e la musicalità. Così ho ricominciato a studiare quella lingua che fino a pochi mesi prima mi aveva sfinita. E tutto è cambiato.
Con quali convinzioni avevo studiato finora la lingua giapponese
Cominciamo col dire che, come molti, ho deciso di studiare giapponese in quanto amante di anime e manga. Il mio corso di laurea era comunque popolato da chi dichiarava quasi con orgoglio che no, non si era iscritto per quel motivo e che anzi non leggeva manga né guardava anime. Non si può ignorare, però, che anni fa la motivazione principale era questa e lo stesso vale oggi per gli amanti del kpop che decidono di studiare il coreano. Non ci vedo nulla di cui vergognarsi o da sminuire, anzi, personalmente trovo che sia una dimostrazione del potere immenso di questi media (fumetti, animazione e musica), capaci di avvicinare culture e persone tanto da spingerci a voler immergervisi sempre di più.
Il problema, tuttavia, sorge quando non si è del tutto consapevoli di cosa comporti lo studio di lingue come queste. Da parte mia sono contenta di poter dire alla me del passato, che guardava con aria sprezzante coloro che abbandonavano il corso dopo appena due settimane: tu ce la farai. Al contempo, dovrei darle anche un colpo con uno di quegli iconici ventagli di carta, perché in sostanza anche io non avevo capito molto.
Il mio percorso universitario, infatti, fu scelto di getto, in uno slancio di disperazione e smarrimento dovuto alla mediocre conclusione del liceo, dal quale uscivo senza particolari prospettive o incoraggiamento per le mie inclinazioni. D’altronde non era mai stato compreso appieno il mio interesse per quelle storie piene di riferimenti culturali, per lo più prestate da una compagna di classe o da una senpai – come già amavo chiamare i compagni più grandi, da vera “otaku” che mi convincevo di essere (altro segno della mia ignoranza all’epoca).
Oggi manga e anime sono praticamente mainstream e chiunque può affermare di aver visto se non un episodio almeno il trailer di quelli distribuiti sulle piattaforme streaming più grandi. I tempi, insomma, sono decisamente cambiati. Di conseguenza l’atteggiamento di superiorità viene assunto in base al fatto di guardarli o meno coi sottotitoli e chi già era abituato ai sub dei forum illegali, ora di certo non aspetta il doppiaggio, anzi: si suppone che gli anime vengano tradotti e adattati da professionisti, perciò quale occasione migliore di imparare il giapponese mentre si guarda qualche episodio? Tra sottotitoli e audio, sicuramente si possono imparare un mucchio di cose.
È qui che casca l’asino, come si suol dire. YouTube, TikTok, i social in generale sono pieni di video più o meno lunghi di gente che millanta di poter imparare la lingua giapponese attraverso la visione dei propri anime preferiti. Tuttavia tralasciano sempre alcuni dettagli fondamentali che la maggior parte degli appassionati più ignari, anche essendo a conoscenza della loro esistenza, preferiscono bypassare. Ci ho sbattuto la testa anche io, inizialmente, ma mi è bastata la prima settimana di lezioni per capire quanto ogni singola parte del giapponese serva a comprenderlo nel suo complesso e che non si può fare solo un pezzo alla volta, né ci sono scorciatoie e uniche vie per imparare. Figuriamoci! Oltretutto, i giapponesi mica parlano come negli anime! Quindi è totalmente inutile continuare ad ascoltarli nella speranza di imparare qualcosa. Giusto?
Come è cambiato il mio approccio al giapponese
La verità, come spesso accade, sta nel mezzo. All’università, almeno dal mio punto di vista, si era creata una specie di legge non scritta per cui valeva esclusivamente quello che si imparava dalle lezioni e dalle insegnanti madrelingue. Tutto il resto non era fuffa, ma quasi. Il problema, per me, stava nell’approccio antiquato, prettamente mnemonico e non estremamente volto alla pratica, cosa dovuta ai numeri altissimi di studenti presenti in aula.
Gli anime, in realtà, da un punto di vista di apprendimento linguistico, non sono certo il male assoluto come mi è stato fatto credere. Tuttavia bisognerebbe seguire un certo ordine logico, se si desidera davvero avvicinarsi a questa lingua (ma in verità a una qualsiasi). Quello che ho appreso con la mia laurea ovviamente non era inutile, tutt’altro: oltre alla grammatica e ai kanji, elementi imprescindibili di questa lingua, una cosa da comprendere assolutamente, ad esempio, sono i livelli di cortesia. Una volta studiati, si possono facilmente individuare anche nei dialoghi dei nostri anime preferiti, donando alla scena ulteriore significato che da meri spettatori non si può cogliere.
Si tratta quindi di un vantaggio notevole perché la conoscenza della lingua, come avviene per l’inglese con i suoi jokes, permette un’interpretazione maggiore di un contesto talvolta percepito come artificioso, per non dire quasi incomprensibile. Per quale motivo i dialoghi dello Studio Ghibli vi sembrano così innaturali? Al di là di ciò che si può pensare dell’adattamento, esso è evidentemente il risultato di una scelta che deriva, almeno in parte, dalla necessità di rendere nella nostra lingua una serie di costrutti linguistico-sociali che da noi si riducono tutti al semplice “dare del Lei”.
Gli anime vengono quindi considerati spesso fuorvianti per lo studio della lingua perché i dialoghi sono molto colloquiali, cosa che nel mio caso è sempre stata evitata come la peste, in quanto gli unici miei reali interlocutori erano gli insegnanti, con i quali bisognava naturalmente usare il linguaggio più cortese, composto da diverse formule e locuzioni che suonerebbero assai strane rivolte a un amico. Eppure ora, da laureata, mi sono trovata comunque a colmare la lacuna di non sapermi relazionare in lingua giapponese in modo più diretto e senza fronzoli con i miei coetanei.
Perciò ecco che il mio approccio ha subito un ribaltamento totale: non devo più studiare per poter dire “conosco questa lingua” e basta. Ora voglio e posso studiare questa lingua per comunicare e conoscere individui, per approfondire la cultura così intrisa di parole dai significati reconditi, per poterla poi diffondere e condividere così una passione che in qualche modo, con un percorso altalenante ma ricco di insegnamenti, ancora non si è spenta ed è rimasta viva proprio grazie a quegli anime e manga che pensavo non mi sarebbero mai stati di aiuto pratico.
Un ultimo fun fact per chiudere il cerchio: quella senpai che mi prestava i primi manga e che dunque contribuì, nel suo piccolo, al mio percorso fino a questo preciso momento, è oggi compagna di un collega qui su Stay Nerd. Il mondo è piccolo ma le persone e ciò che condividiamo con loro possono dare vita a grandi storie e lezioni di vita come questa.