La domanda chiave: era davvero necessario?
Il problema di fondo, a ben vedere, resta uno solo: vogliamo intensamente credere che sotto la scintillante etichetta Bioware continui a sopravvivere, come all’interno di un delicato ecosistema artificiale, la stessa miracolosa demiurga dei tempi di Baldur’s Gate e KOTOR. Non è così, e non lo è da molto tempo, sebbene nel corso degli anni si sia spesso continuato a salutare ogni nuova manifestazione della software house canadese come fosse il Verbo sceso in terra a miracol mostrare. Persino Dragon Age: Inquisition, probabilmente il più catastrofico titolo di Bioware, riuscì a in qualche modo a salvarsi, potendo contare sulla reputazione pregressa di una saga che, seppure ampiamente sopravvalutata sin dal primo episodio, aveva se non altro il merito di aver riportato il soggetto fantasy al centro della ruolistica mainstream in un periodo non particolarmente esplosivo per il genere. Meno fortunato Mass Effect Andromeda, affossato dall’impresentabile comparto tecnico, subito oggetto di un vero e proprio carnevale di esilaranti meme internettiani. Parte della critica e una larga percentuale del pubblico hanno avuto gioco facile nell’associare il tracollo di Bioware alle condizioni traballanti degli studi, alla precarietà del personale, e soprattutto alla dittatoriale tutela di EA, ormai assunta a mo’ di totem catalizzatore di tutta la malvagità dell’universo. Ed è ancora più semplice dispiegare tutto l’armamentario giustificazionista della community videoludica e del cosiddetto giornalismo di settore, vale a dire quella retorica un po’ maternoide che riconosce gli sforzi dei “ragazzi” Bioware (o Bethesda, o Ubisoft, o quel che volete), ci tiene a sottolineare che “è solo una beta”, resta in attesa che patch e mod intervengano a salvare la baracca, e alimenta quel cortocircuito di vicinanza artificiosa tra produttore e consumatore che è praticamente esclusiva del mercato videoludico: come se i videogiochi fossero da considerarsi alla stregua di generose strenne natalizie invece che prodotti di un’industria miliardaria regolarmente pagati dagli acquirenti.
Questa lunga premessa vale in particolare quando ci si trova a commentare un titolo come Anthem, confezionato con tutti gli orpelli e gli accessori alla moda che si convengono a un gioco di fascia alta, e al quale oltretutto spetta il gravoso compito di inaugurare una IP inedita in casa Bioware dopo il brutto incidente di Mass Effect Andromeda. A ben vedere, nonostante l’intera campagna promozionale di Anthem sia stata concepita per sottolineare le radicali novità dell’iniziativa, il riferimento diretto ad Andromeda, e ancor prima a Inquisition, appare assolutamente indispensabile. Questo perché Anthem non soltanto costituisce la naturale conseguenza del percorso divisorio tra materia narrativa e materia ludica inaugurato da Inquisition e proseguito in Andromeda, ma soprattutto perché ne recupera l’intera concezione strutturale, limitandosi a rivestirla con una glassa dall’aroma lievemente differente e a introdurre la componente multigiocatore – che dovrebbe rappresentare il cuore pulsante attorno al quale il progetto è stato costruito. Se si penetra appena un po’ la sottile crosta pubblicitaria, ci si rende perfettamente conto di avere a che fare, più che con un videogioco di altro genere (come pure è stato fatto passare), con il terzo episodio di una trilogia perfettamente coerente con se stessa.
Identica è, innanzitutto, l’impalcatura ludica di base, che prevede la coesistenza alternata tra due dimensioni parallele, funzionanti alla stregua di compartimenti stagni: l’uno destinato alla sola componente esplorativa (e dunque “accumulativa”), l’altro riservato a quella gestionale (e dunque “re-distributiva”). Le due dimensioni propongono gameplay totalmente differenti (bellico l’una, dialogico l’altra), sono reciprocamente impermeabili e non comunicano in alcun modo tra loro se non trasmettendosi informazioni numeriche attraverso variabili progressive. Fin qui niente di diverso da quanto ci si aspetterebbe da un multiplayer in cooperativa, non fosse che si tratta esattamente dell’impalcatura di Inquisition e Andromeda, che ai tempi ci furono venduti come RPG: questioni di categorie merceologiche, insomma.
Identico è, parimenti, il funzionamento dell’apparato gestionale, tanto che il sistema di menu, sottomenu, commercio e crafting di Anthem potrebbe essere tranquillamente trasferito in Andromeda (e viceversa) senza compromettere in alcun modo l’esperienza complessiva di gioco. Anche la linea diegetica generale, una volta messe da parte le varianti nella micro-narrazione, resta essenzialmente la medesima in tutti e tre i titoli, e si incentra sul consueto generico plot fantasy/sci-fi da interpretare alternativamente con draghi o esoscheletri a seconda dell’occasione: c’è un arcinemico crudelissimo da sconfiggere, un’energia misteriosa che si rapprende in luminescenti vagine sospese a mezz’aria (verdi in Inquisition, azzurre in Andromeda, blu/violetto in Anthem) e che serve sostanzialmente a giustificare il respawn dei nemici su mappa, ci sono fazioni in concorrenza tra di loro e portali che si possono richiudere solo individuando “interruttori” nelle vicinanze – lo ricordate il temibile sudoku alieno di Andromeda?
Identiche sono, infine, le modalità con cui la suddetta linea diegetica viene veicolata al giocatore, sia dal punto di vista tecnico-meccanico – tutti i contenuti sono espressi in forma dialogica fuori dalla mappa di gioco, o al massimo delegati alle solite “lettere morte” rilasciate da cadaveri e cassette di sicurezza – sia dal punto di vista stilistico. Su quest’ultimo fronte in particolare, Anthem fornisce conferma definitiva di come Bioware abbia da tempo ceduto le armi sul fronte della scrittura, uniformandosi in modo preoccupante a un tenore linguistico generalista e post-adolescenziale. I personaggi, che si presuppone essere militari, profughi, scienziati, tecnici e così via, parlano tutti allo stesso modo, si lasciano scappare al massimo un “dannazione” quando sono davvero molto incazzati, e le loro conversazioni sono costellate di tautologie e sentenze motivazionali, tanto da assomigliare più a una sessione di brainstorming in qualche start-up della Silicon Valley che allo spaccato realistico di una comunità in guerra.
L’unico cambiamento significativo apportato da Anthem alla formula Inquisition/Andromeda è la sostituzione definitiva dei compagni del party con avatar controllati da altri giocatori. All’inizio di ogni quest prevista dalla trama principale si viene associati automaticamente ad altri tre utenti con cui cooperare per la riuscita della missione. Peccato però che tale cooperazione di fatto non possa in alcun modo sussistere, giacché la destinazione finale delle quest – che consistono tutte nell’uccidere gruppi assortiti di nemici o turare un qualche portale di respawn – viene segnalata immediatamente all’ingresso della mappa con un apposito indicatore. Non appena caricata l’area della missione, ci si deve affrettare verso il punto prestabilito per evitare di essere lasciati indietro dagli altri e per potersi assicurare almeno un po’ di bottino e di punti esperienza prima che il server annunci la vittoria e ci sbatta fuori. Affrontare la campagna principale di Anthem significa, a conti fatti, ammirare quattro pirla svolazzanti che fanno a gara a chi arriva prima. E anche quando si riesce a giungere tutti insieme a destinazione, ci si accorge di come la “cooperazione” intesa da Bioware consista nello sparare tutti contro uno stesso bersaglio, giacché il tanto pubblicizzato sistema di combo – per il quale al momento non esiste un tutorial esaustivo – si ottiene il più delle volte in modo del tutto fortuito.
Il gioco si comporta meglio quando si abbandona il matchmaking casuale e ci si concede un po’ di esplorazione sulla mappa libera, in solitaria o con un team di utenti fidati. Il motore Frostbite modella ambientazioni complesse e pinnacolari e il movimento a 360 gradi invita il giocatore a percorrere tutte le altezze e le profondità, in un flusso dinamico altamente spettacolare. Tuttavia, una volta esaurito l’entusiasmo per l’esperienza del volo, ci si trova di fronte alla cruda realtà dei fatti: proprio come accadeva nei due diretti predecessori, la mappa di gioco non ha alcuna valenza realmente ambientale o contenutistica, e funziona solo come distanza scenografica da attraversare per raggiungere l’ennesimo segnalino, presso il quale troveremo l’ennesima squadra di mutanti e l’ennesimo portale da serrare. Ci si stanca ben presto di un mondo che non ha nulla da comunicare se non la propria sontuosa e superficiale apparenza.
A conti fatti, il problema di Anthem non è tanto quello di essere un gioco particolarmente scadente, visto che, nel concludere la trilogia inaugurata da Inquisition e Andromeda, riesce per lo meno a colmare il più eclatante deficit dei due predecessori, ossia quello di essere sostanzialmente dei multiplayer in solitaria. Il problema di Anthem è che si tratta di un gioco drammaticamente non necessario, generico sul piano artistico, infantile su quello narrativo e superficiale su quello ludico. Esattamente come nel recente passato, l’impressione che se ne ricava è quella di trovarsi di fronte, più che al risultato di una solida e ragionata progettazione, al prodotto insapore e compromissorio di focus group e ricerche commerciali, condotte allo scopo di accaparrarsi il pubblico più vasto possibile in un mercato che, sul piano multiplayer e cooperativo, ha da offrire ben altro. Le prospettive, per Anthem e per Bioware tutta, non sono le migliori. Speriamo sinceramente di sbagliarci.