Durante questa edizione dell’ARF! abbiamo avuto il grande piacere di intervistare Sergio Algozzino, fumettista per Tunuè, ma soprattutto autore a tutto tondo. È infatti un noto disegnatore ed un colorista, mansione che svolge – tra l’altro – anche per Dylan Dog, ma nel 2017 è stata pubblicata anche la sua prima prova esclusivamente da sceneggiatore, con il volume Il Piccolo Caronte.
Algozzino ha risposto molto cordialmente a tutte le nostre domande.
Per cominciare vorremmo chiederti un parere su questa terza edizione dell’ARF!.
Questo è il secondo che vivo e devo dire che è molto bello. C’è uno splendido ambiente, è davvero piacevole, molto gradevole, e mi trovo benissimo.
Hai portato, per Tunuè, due volumi: Storie di un’Attesa e poi Il Piccolo Caronte. Raccontaci qualcosa proprio di quest’ultimo. Da dove è nata l’idea? Come si è sviluppata?
Il Piccolo Caronte è il primo libro che faccio da sceneggiatore, dopo gli altri in cui avevo sia scritto che disegnato. L’ho fatto perché avevo voglia di raccontare questa storia che però non volevo disegnare; ce l’avevo in testa da tanto tempo ma rimaneva sempre lì. Ad un certo punto ho capito che non sarei riuscito a portarla avanti, poiché aveva un immaginario e una logica narrativa che non sono particolarmente affini al mio stile di disegno. Ormai graficamente ho capito di preferire alcune cose piuttosto che altre, però non mi andava di metterla da parte, e così ho trovato il sistema per pubblicarla, facendola disegnare da un’altra persona.
Com’è stato interagire da sceneggiatore con Deborah Allo?
Ho cercato di non imporre la mia visione del libro. Dovevo, ovviamente, avere a che fare con qualcuno che sentivo simile a me, non uguale, perché lo stile di Deborah è comunque diverso dal mio, ma sapevo che c’era una coerenza di fondo, anche se esteticamente siamo distanti. Fatto ciò, nonostante io scrivessi soprattutto sotto forma di storyboard, evitavo di farglieli vedere e li ricomponevo nella sceneggiatura scritta. Le cose che imponevo sono più quelle riguardanti la composizione della struttura, ovvero le doppie pagine fatte in un certo modo, le sequenze in bianco e nero, con o senza colori… Invece, per quanto riguarda le scelte legate all’immaginario disegnato, davo delle indicazioni ma volevo che Deborah desse la sua interpretazione.
È molto interessante questa interazione tra un disegnatore “nell’animo” che fa lo sceneggiatore “per ruolo” e un disegnatore sia nel ruolo che nell’animo. In fin dei conti era quasi come se foste in tre a lavorare, invece che in due…
Sì, sicuramente è venuto qualcosa di diverso rispetto a quando l’autore scrive e basta e rispetto a come immaginavo che sarebbe andata. Pensavo che avrei avuto un carico di lavoro diverso, più alleggerito, ma in realtà è stata una fatica immane.
Sempre sul Piccolo Caronte: si tratta della rivisitazione di un mito. Da dove proviene?
Allora, lo spunto è molto semplice: c’è un Caronte, diverso da come siamo abituati a conoscerlo, che decide di andarsene e quindi il suo posto dev’essere preso dal figlio, anche se lì non esistono dei veri ruoli padre-figlio. Ma lui, nonostante la sua età indefinita, è ancora un bambino perché non ha la coscienza di un adulto, non conosce i temi della vita e della morte. Il libro ruota intorno al fatto che debba impararli, perché quello sarà il suo compito. Quindi, traghettare le anime vuol dire conoscere i significati sia della vita che della morte e apprendere che tutto questo è inevitabile. È un libro sulle responsabilità, sulla loro accettazione. Sul crescere, insomma.
Tu sei anche insegnante. Cos’è che ti preme di più dei tuoi allievi e in generale riguardo le nuove generazioni di artisti? Oggi sono cambiati tanti aspetti; secondo te quali sono i più importanti che devono essere a tutti i costi tramandati?
L’unica cosa reale che non dovrebbe mai cambiare e che serve sempre, se uno vuole veramente fare questo mestiere, è la consapevolezza. Mai pensare che si possa fare qualcosa senza conoscere ciò che è venuto prima, perché è un mestiere molto legato alla tradizione, anche negli aspetti più estremi ed innovativi. Tutto questo per un particolare veramente semplice: si tratta di raccontare una storia. E dato che questa cosa rimane costante…
Non bisogna mai dimenticarla.
Si deve sempre seguire un percorso logico, non di negazione del passato ma di continuità. Il passato deve anche essere usato per arrivare al nuovo. Nessun grande artista del fumetto ha inventato ciò che ha fatto basandosi sul nulla.
Anche se magari può sembrare…
Sì, ma questo discorso vale soprattutto per gli autori che invece non “sembrano” ispirarsi a qualcosa o qualcuno, che vengono equivocamente ripresi come modelli pensando che non abbiano nessun riferimento. Ma invece non è assolutamente così. E non si tratta sempre di un modello grafico e basta. Alla fine, per fare fumetti, è impensabile credere di non aver dei riferimenti involontari, basati sulle tue letture. Io stesso ne ho molti.
Per esempio?
Quando mi chiedono chi è l’autore che mi ha influenzato di più, sono consapevole che alcuni li ho scelti durante il mio percorso, ma che altri, tipo Sal Buscema o tanti altri, con me non c’entrano nulla, né col modo di disegnare né di scrivere, e nonostante questo io so che per tanti piccoli aspetti li ritrovo in quello che faccio.
Si eredita sempre qualcosa.
Invece, com’è stato confrontarsi con Dylan Dog, con un’icona del genere?
Dylan è la prima serie che ho comprato in assoluto in maniera regolare, che ho collezionato e che continuo a comprare ancora oggi. Quindi mi ci sono ritrovato a collaborare perché sono capace, ma prima di tutto perché era un mio desiderio. Lo amo tantissimo. Essere lì, nello staff del Color Fest, dove il colore è al centro di tutto e che ora per fortuna è stato riconsiderato ed è diventato importantissimo, è una cosa davvero speciale. Soprattutto in un albo dove è fondamentale, come lo Scuotibare, c’è stata questa sinergia grafica con Giorgio Pontrelli che funzionava benissimo, anche per merito della storia di Giovanni Masi. Poi mi ha fatto molto piacere vedere che i complimenti per il mio ruolo di colorista non sono venuti solo dagli addetti ai lavori, perché spesso questo genere di elogi vanno solo al disegnatore, ma stavolta i colori si sono fatti notare insieme al suo tratto.
È stato difficile colorarlo?
Sì, ma è stato prima di tutto un piacere. Perché la cosa divertente di colorare i Color Fest è che sono sempre disegnatori diversi, quindi cerco di fare qualcosa di differente per ciascuno di loro, seguendo lo stile personale di ognuno. Questo è davvero stimolante, perché mi porta a individuare i migliori colori possibili. Poi lavorare con Giorgio è stato stupendo, tra noi c’è un’amicizia diretta, ci siamo visti, confrontati, e avevo una grande voglia di renderlo felice. La possibilità di vedersi purtroppo non mi è capitata spesso con gli altri disegnatori.
Che progetti futuri hai in cantiere?
Da una parte proseguirà il lavoro su Dylan, poi ho almeno un paio di libri in cantiere. A giugno esce la nuova edizione di Memorie ad 8 Bit, e per questo mi piace considerarmi un po’ una sorta di George Lucas dei poveri, perché ogni volta che faccio una ristampa aggiorno e aggiungo qualcosa. Ci sono pagine nuove, ho cambiato dei testi, come se fosse un libro diverso. Poi ne inizierò a scrivere un altro e un altro ancora da far disegnare a Deborah.