Un viaggio emozionale tra mente e linguaggio
Negli ultimi anni lo sci-fi sta prendendo una deriva che divide. Che siano viaggi interstellari, che ci sia il contatto con entità extraterrestri o si abbia a che fare con catastrofi climatiche (qui, per fortuna, un po’ meno) raccontare una storia fantascientifica non vuol dire più stupire con la commistione di un buono script e immagini ed effetti mirabili, ma sembra necessitare di un approccio ideologico e/o spirituale.
E se il concetto di per sé divide – come è ovvio che sia – chi ricerca costantemente la purezza del genere da chi adora questa tendenza del drama sci-fi (chiamiamolo così, che ci piace), immaginate quanto si possa accentuare il divario quando poi si deve giudicare il film in sé. Arrival è brutto? È bello? È un capolavoro?
Calma; andiamo con ordine.
Dodici misteriose e gigantesche astronavi extraterrestri appaiono in altrettanti luoghi sparsi sul pianeta Terra. Nessuno conosce il motivo per cui sono arrivati e se vi è una logica dietro la scelta dei luoghi dell’atterraggio. Viene così incaricata la linguista Louise Banks (Amy Adams), selezionata per far parte di una squadra speciale creata al fine di analizzare le specie aliene nel sito degli Stati Uniti in Montana. La scelta ricade su di lei per via della sua abilità nella traduzione e il suo attuale nulla osta di sicurezza di alto livello. Fanno parte della squadra anche il fisico teorico Ian Donnelly (Jeremy Renner) e un colonnello dell’esercito americano di nome Weber (Forest Whitaker).
Louise, aiutata da Ian, dovrà provare a comunicare con gli alieni, cercando di farlo attraverso lo studio della loro lingua. Da qui inizierà una sorta di viaggio all’interno di sé stessa e della sua vita, di ciò che è stato ma soprattutto di ciò che sarà.
La nostra reale percezione critica del film va di pari passo con la presa di coscienza di Louise. Mentre la donna annaspa in una coltre di incomprensione, tra flashback reali ma apparentemente mai vissuti, lo spettatore brancola nel buio appeso al filo teso da Villeneuve. Non si spezza perché il regista canadese lo tiene vivo grazie alla sua abilità nel creare quella commistione di sensazioni, dalla tensione all’inquietudine, passando per la curiosità, stordendoci un po’ e regalandoci come effetto collaterale quella stessa nausea che la protagonista prova al termine delle sue sessioni dentro il “guscio”.
E così procediamo, andando avanti insieme alla nostra Louise, mentre le nebbie iniziano a dissiparsi nella sua mente, delineando dei contorni dolceamari poiché sospesi tra le brutture della realtà e il fascino della conoscenza. Alla stessa maniera della dottoressa Banks, lo spettatore inizia a comprendere ciò che ha davanti, e quella iniziale tangibilità degli eventi percepiti dalla donna si tramuta nel nostro primo giudizio critico, che prende forma pian piano. Molto piano.
È un film complesso Arrival, che osa esplorare il campo minato della mente, applicandolo ad un genere pericoloso come quello fantascientifico.
Ammicca alla visione di Malick; balza dalle parti di Gravity riempiendo con la Adams (strepitosa!) i vuoti emozionali lasciati dalla Bullock; prende spunto persino da Spielberg. Ma Villenueve è autentico, ed Arrival è un film totalmente nuovo.
Sono davvero in pochi a saper girare come Villenueve. La potenza delle immagini lascia un solco nell’anima dello spettatore, che si chiede dove il regista voglia arrivare e con quanta forza abbia intenzione di colpirci. Attende per poi metterci alle corde, lasciandoci in tensione, senza mai darci però il colpo del Knock-Out.
Ci fa credere per quasi un’ora e mezza di voler approfondire l’importanza del linguaggio, a livello universale, che sia tra umani o con gli alieni. Ci appassioniamo e ci emozioniamo con la comprensione e l’idea di un linguaggio palindromico e come questo possa influire nel far funzionare la mente. Poi, in una frazione di secondo, compie il salto forse più lungo della gamba.
È lì, nel momento in cui Villeneuve prende le distanze così bruscamente dalle linee che ha abilmente tracciato, per esplorare la pericolosa struttura della mente, che lo spettatore si desta e riesce a restituire un colpo.
È difficile persino giudicarlo, questo Arrival. Forse perché Villenueve è così bravo a provocare emozioni con la forza delle immagini che lo strascico che lasciano pone un velo sopra tutti i potenziali errori. Poi, a mente fredda, si comprende che in effetti il passaggio dalla scienza alla spiritualità è probabilmente troppo netto. Chissà come sarebbe stato se avesse deciso di accompagnare più dolcemente il racconto dalla terraferma a quello della mente.
Per il momento usciamo comunque dalla sala con una grande conferma: in attesa di vedere il suo Blade Runner 2049, la regia di Villenueve è straordinaria, sa emozionare, turba e sconvolge.
Per farsi un’idea grossolana di Arrival ci vuole qualche ora; va lasciato riposare come il buon vino. Solo allora potrete capire se sarà di vostro gradimento, oppure no.