Artemis Fowl, disponibile dal 12 giugno su Disney+, è un progetto invecchiato ancora prima di arrivare sullo schermo, che non convince i vecchi fan e difficilmente ne attrarrà di nuovi
La storia di Artemis Fowl inizia ben prima di Disney+, precisamente nel 2001, subito dopo la pubblicazione del romanzo di Eoin Colfer che porta lo stesso nome. Primo di quella che diventerà una saga in otto parti, questo romanzo che unisce magia e tecnologia, presentato dall’autore stesso come una sorta di Die Hard con gli esseri fatati, viene immediatamente opzionato per essere portato al cinema e, altrettanto rapidamente finisce nel development hell, dove resta per quasi un ventennio, prima di essere recuperato da Walt Disney Pictures.
La produzione del film, però, continua a essere funestata da una serie di sfortunati eventi: nel 2017 Harvey Weistein, co-produttore del progetto, viene accusato e successivamente riconosciuto colpevole di stupro e violenza sessuale e l’arrivo nei cinema di Artemis Fowl viene posticipato di un anno, passando dalla première del 9 agosto 2019 a quella del 29 maggio 2020, nuovamente cancellata a causa della pandemia attualmente in corso, per finire con una prima visione in streaming sulla piattaforma di Disney+. Sembra proprio che le forze cosmiche dell’universo si siano messe d’impegno per far sì che questo film non vedesse la luce. E forse dovevamo dare loro ascolto.
La versione targata Disney+ di Artemis Fowl, infatti, è un film che avrebbe forse potuto trovare un suo pubblico all’inizio del millennio, ma che oggi – nonostante il suo budget da 125 milioni di dollari – non può che mettere d’accordo i vecchi fan della saga e gli spettatori occasionali sulla sua superfluità.
Un immaginario già vecchio
Il motivo per cui Artemis Fowl nel 2020 non funziona è, prima di tutto, visuale. A meno che non siate rimasti intrappolati sotto terra come il Piccolo Popolo per gli ultimi vent’anni, vi sarà impossibile guardare il Dwarfus Giganticus Mulch Diggums senza riconoscere nel personaggio interpretato da Josh Gad un insieme di spunti stilistici ripresi dal Jack Sparrow di Pirati dei Caraibi, dai nani de Lo Hobbit di Peter Jackson e dal Rubeus Hagrid di Harry Potter (gigante nano, perfetta controparte di un nano gigante). Il confronto con questi personaggi, tutti arrivati al cinema in contemporanea o negli anni successivi al 2001, fa sembrare il personaggio di Mulch Diggums una figura parodistica, anziché un elemento organico ben integrato nella narrazione. Allo stesso modo, il connubio tra magia e tecnologia è trattato da Colfer nei romanzi e ancora di più dagli sceneggiatori Conor McPherson e Hamish McColl con l’ingenuità di chi ancora si stupisce di ciò che possono fare i computer, un argomento che temo abbia poca presa sui nativi digitali di oggi.
Se non fosse stato per il lungo periodo trascorso tra l’acquisizione dei diritti per la trasposizione e la presentazione del risultato al pubblico, l’Artemis Fowl di Disney+ si sarebbe inserito in un periodo cinematografico in cui i bambini si esaltavano con film come Spy Kids e Le avventure di Sharkboy e Lavagirl in 3-D, giusto per citare due dei più assurdi progetti del curriculum di Robert Rodriguez. Ma Artemis Fowl è invecchiato rimanendo nel cassetto e si presenta a una nuova generazione di spettatori con trucchetti registici che erano già imbarazzanti vent’anni fa e scene di ralenti messe lì forse per aumentare di trenta secondi il minutaggio complessivo del film.
Disney: uccidiamo le mamme dei protagonisti dal 1937
Sebbene non possa parlare per i giovani di oggi, mi sento però di rappresentare la vecchia guardia dei lettori di Artemis Fowl, quelli che hanno perso il sonno e qualche diottria, dopo la pubblicazione del primo volume, cercando di tradurre il codice in calce a ogni pagina in cui era scritta la Profezia di Ohm. Ecco che i vecchi lettori si trovano davanti un accorpamento dei primi due libri, in cui la mamma di Artemis, molto importante per la crescita morale del figlio, come sa chi ha letto il libro, in pieno stile Walter Elias Disney viene tolta di mezzo e la sua dipartita comunicata al pubblico con una mezza battuta dello psicoterapeuta di Artemis. Il giovane diventa così, nella sua versione cinematografica, un figlio orfano di madre e con un padre affettuoso ma sempre distante, interpretato da un Colin Farrell che si atteggia come la versione PG-13 del Christian Grey di 50 sfumature. Fate e folletti sono un affare di famiglia, a differenza di ciò che accade nel romanzo, e Artemis Fowl, più che l’erede di una famiglia criminale, ci viene presentato come un ricco rampollo viziato.
Questo non aiuta certo a sviluppare l’empatia dello spettatore, che non si sente mai veramente coinvolto dalla teoria di esseri fatati, backstory ed eventi che si susseguono. Sebbene l’Artemis di Eoin Colfer sia ancora più insopportabile, l’autore ha creato un personaggio che scatena una reazione – seppur negativa – nel lettore laddove la produzione Disney+ ricopre di zucchero un moccioso noioso facendogli affermare di essere un pericoloso criminale.
MacGuffin sì, MacGuffin no, MacGuffin gnam
Nel romanzo, Artemis Fowl vuole ricattare il Piccolo Popolo per ottenere abbastanza soldi da rimpolpare il patrimonio familiare, impoveritosi dopo la scomparsa del padre, dato per morto, e la conseguente infermità mentale della madre, impazzita di dolore. Una motivazione opinabile, ma non ci dimentichiamo che stiamo pur sempre parlando di un dodicenne. Nel film Disney+ troviamo invece tutti i personaggi alla ricerca dell’Aculos, una gigante ghianda scintillante che ha lo scopo di accendere i motori della narrazione. Come il factotum di Siviglia, tutti lo cercano, tutti lo vogliono, e in ultima istanza la ghianda stroboscopica ha almeno il pregio di rendere più rapida la risoluzione finale di questo techno-magi-thriller per cui speriamo che Judy Dench abbia ricevuto un cachet tale da giustificare la sua decisione di indossare una divisa sottobosco e delle orecchie a punta.
Artemis Fowl e il villain evanescente
Restando in casa Disney, in un’immaginaria classifica dei villain meno accattivanti della storia del cinema Opal Koboi si piazza in testa, superata forse solo dal (giustamente) dimenticato e dimenticabile Sarousch de Il gobbo di Notre Dame II. Opal Koboi è un agente del caos senza backstory, senza dimensione e, per essere sicuri che il pubblico se ne dimentichi il più velocemente possibile, senza volto. Caratterizzata come l’antagonista di una sessione di D&D scritta da un master alla prima esperienza, Opal vuole vendetta per i soprusi subiti nei secoli dal Piccolo Popolo, costretto a vivere nelle viscere di una terra il cui nucleo è avvolto da uno strato d’acqua in forma liquida che non risente del calore del superiore strato di lava incandescente. Tutto in questo film strilla sequel! ma non credo che nessuno si strapperà i capelli nel momento in cui questo verrà cancellato e non sentiremo mai più parlare di Opal Koboi o, se è per questo, di Artemis Fowl.
Politically incorrect
Superando se stessa, in Artemis Fowl Disney+ riesce a inserire, contemporaneamente del whitewashing e del blackwashing. Holly Short, fata dalla carnagione color del caffè, viene interpretata dalla quattordicenne attrice irlandese Lara McDonnell, mentre Domovoi Butler, maggiordomo di discendenza eurasiatica di Artemis, viene interpretato da Nonso Anosie, attore britannico di discendenza igbo-nigeriana. Butler, che nella serie di romanzi non rivela il proprio nome fino al terzo libro e che viene appunto chiamato semplicemente Butler, nel film rifiuta di essere così appellato. Nello scegliere una persona di colore per il ruolo del servitore, Disney cade di nuovo nel cliché conosciuto come the black servant, il servitore nero del bianco facoltoso. Non migliore è il trattamento riservato all’Italia, mitologico luogo in cui i matrimoni si festeggiano tutt’oggi come sagre di paese, con i villici in festa e i giradischi ad accompagnare l’evento.
Sicuramente pensato per un pubblico di giovanissimi, Artemis Fowl è tuttavia un’offesa all’intelligenza dei ragazzi di oggi, creato da un gruppo di persone che crede che basti un po’ di magia per trasformare un didascalico coacervo di insipide scene d’azione malamente supportate dalla VFX in un film e mantenere l’attenzione di un giovane spettatore. I ragazzi, però, si meritano di meglio.