Street Fighter 6 deve essere il punto di svolta per una saga che ha bisogno di stupire nuovamente
’è stato recentemente l’annuncio di Street Fighter 6 con un relativo teaser che vuoi o non vuoi, ha scaldato gli animi degli appassionati di picchiaduro, con un grande chiacchiericcio in conseguenza al brevissimo filmato mostrato. Io per primo, grande fan della saga da sempre, mi sono lasciato andare ad uno spontaneo entusiasmo per la notizia. Ma a mente fredda, non posso fare a meno di chiedermi del perché di questo. Perché l’idea di un nuovo Street Fighter, nel periodo probabilmente in cui la sua luce è più fievole che mai, in un mercato ormai denso di prodotti eccellenti dello stesso genere, suscita ancora tanto clamore unico che solo questo brand riesce a generare?
La risposta che mi sono dato devo ammetterlo, è un po’ dolceamara: i videogiocatori rimangono affezionata al brand per meriti conquistati in tempi non sospetti e non tanto per le sue performance nelle ultime iterazioni. Amo tantissimo Street Fighter, sono profondamente affezionato alla saga, ma non sono in nessuna maniera un pro player quindi il mio discorso non verte sul versante prettamente tecnico del gameplay, quindi non me ne volesse la nicchia di hardcore gamers di Street Fighter se eventualmente dovessi sottovalutare l’importanza di certe meccaniche più recenti, ma vorrei soffermarmi su una visione più… macroscopica diciamo, del fenomeno Street Fighter.
Il titolo di Capcom è stato precursore di molte caratteristiche e di molti elementi ai vertici del genere per buona parte della sua evoluzione. Seppure esistesse già da qualche anno prima Kung-Fu Master (1984) è indubbio che solo con il primo Street Fighter (1987) ci sono stati i primi vagiti di tutti gli stilemi che avrebbero in seguito definito un genere intero. Accenni di un moveset vagamente articolato, supermosse, e degli sprite caratteristici e accattivanti.
Poco importava se sotto il nostro controllo potevamo avere solo Ryu (con Ken presente solo nelle sfide tra due giocatori). Ma è con Street Fighter II nel 1991, che Capcom ha portato la vera e propria rivoluzione. Mai gioco fu più idolatrato, emulato, imitato da decine di altri prodotti simili che cercavano di ricalcarne le orme con più o meno successo (tra tutti ricordiamo giochi come World Heroes o Fatal Fury). Nelle sale giochi divenne una vera e propria istituzione tra aspiranti picchiatori digitali. Ma quale fu il segreto di questa formula esplosiva? Mettiamo da parte il banalissimo fatto che semplicemente, il gameplay era qualcosa di così quadrato, bilanciato e perfetto, che divenne lo scheletro inscalfibile della saga per un trentennio. C’era molto di più, c’era la caratterizzazione incredibile dei personaggi, capaci di rimanere scolpiti anche solo visivamente nel cuore dei giocatori per sempre.
A mio dire, con Street Fighter, Capcom ha fatto il lavoro creativo tra i più importanti della storia del settore, creando con Ryu, Chun Li, Zangief, Guile, Honda e compagnia degli archetipi semplicemente perfetti, personaggi così iconici da poter essere comparati a quelli Disney, ai Simpson, agli eroi di Dragon Ball, in quanto a riconoscibilità. Basta una silhouette, un accostamento di colori specifico, e subito vengono in mente le figure dei celebri lottatori. Un lavoro di character design praticamente senza tempo, e non è un caso se il roster è rimasto sostanzialmente immutato per 30 lunghi anni e più, nei suoi connotati. Moderno ma vintage, peculiare ma non arzigogolato, unico, universale e inimitabile per ogni personaggio (cloni a parte): ritoccare il look di questi combattenti, anche di poco, significa irrimediabilmente rovinarli. Street Fighter II era un videogioco il cui immaginario trascendeva il cabinato stesso in cui prendeva vita, grazie anche al lavoro di un sacco di artisti fantastici che in quegli anni hanno dato vita a tutto un campionario di illustrazioni per dare tridimensionalità ai protagonisti del gioco che contribuiva a renderli incredibilmente carismatici.
E vi parlo di fuoriclasse della matita come Bengus, Akiman, Ikeno, Nishimura. Se non avete idea di cosa hanno fatto, andate subito a dare un’occhiata su google. Senza contare la rivoluzione dei sei tasti, tre pugni e tre calci di diversa potenza e velocità, una innovazione tanto banale oggi ma tanto geniale, che unita al grande focus sulle “Normal” di un gioco come Street Fighter II, si rivelava il layout perfetto per inserire immediatezza d’esecuzione in un combat system per l’epoca complesso e stratificato. Mille spin-off dopo, nel 1997, Street Fighter 3 setta nuovamente l’asticella lì dove nessun concorrente è in grado di arrivare. Fregandosene completamente dell’avvento dei fighting game tridimensionali come Virtua Fighter e Tekken, Capcom sforna di nuovo un autentico capolavoro.
Un gioco che sonoramente e graficamente ti colpisce in faccia con la potenza di uno Hadoken lasciandoti stordito e che con UNA singola aggiunta stravolge nuovamente il mondo dei Beat ‘em up: la parry, piccola, gargantuesca nuova meccanica che cambia totalmente gli equilibri degli scontri. Grazie a Street Fighter 3 la nicchia underground dei picchiaduristi di professione esplode e grazie ad esso eventi come l’EVO riescono a far uscire la portata della scena competitiva fuori dalle fumose sale giochi per travolgere tutto il mondo, regalando alla platea momenti indimenticabili, come lo storico scontro tra Daigo Umehara e Justin Wong del 2004.
Quando arrivò Street Fighter 4, in qualche modo dalla mia prospettiva si cominciarono a tirare i remi in barca, non sapendo più come rendere davvero travolgente il franchise. Non fraintendetemi, Street Fighter 4 fu un grandissimo picchiaduro, capace di ampliare ancora di più la bolla degli appassionati e degli eventi dedicati, ma in fin dei conti, già da questo capitolo si puntava su un’opera di recupero e non di evoluzione. Si cercava di tornare alla semplicità tecnica e visiva di Street Fighter II, un ritorno alle origini tratteggiato da sprazzi di modernità, come la discreta ma non eccezionale cifra stilistica, e varie dinamiche che in fin dei conti si rivelarono varianti di intuizioni avute in passato. Street Fighter 5 d’altro canto, è senza dubbio il gioco che maggiormente ha vissuto di rendita, forte dello zoccolo marmoreo degli appassionati formato nel tempo e simbolo di una fase di immobilità creativa mentre la concorrenza di Arc System e Netherealm cominciavano ad affilare gli artigli per migliorare il più possibile i loro prodotti cercando di sfruttarne le potenzialità. La mia sensazione è che Capcom si è comportata in maniera rinunciataria con Street Fighter.
Street Fighter 5 uscì con budget limitato, grazie soprattutto al supporto di Sony, con poche innovazioni, un contorno pressoché inesistente, e una indole totalmente asservita all’esigenza di farsi strada nell’appassionante ma per certi versi asettico mondo dell’E-Sports. E si che c’erano le idee per osare inizialmente, nei primi concept del gioco, ma si abbandonarono per andare sull’usato garantito. Idee che, dal piccolo teaser di Street Fighter 6 rivelato di recente, potrebbero essere recuperate, ovvero quelle di investire innanzitutto sulla personalità del prodotto (perché solo di questo si può parlare per ora), con un look finalmente coraggiosamente e nuovo per i suoi personaggi, che potrebbe tendere al realistico, complice il quasi certo utilizzo dell’ Re Engine. Realistico ma non troppo ovviamente (l’ipertrofico corpo di Ryu parla da solo).
Anche le note musicali che accompagnano il teaser ci ricordano in qualche modo la svolta hip hop di Street Fighter III e rappresentano la volontà di puntare verso un prodotto meno anonimo e più ricercato stilisticamente. Almeno, speriamo che sia davvero così, e che finalmente Capcom, in stato di grazia da qualche anno, sia intenzionata finalmente a dare nuova dignità al suo picchiaduro per eccellenza, vissuto per troppo tempo sotto l’ombra del suo passato. Sicuramente, sarebbe giunto il momento di farlo.