Dopo 85 ore, ho concluso le attività principali di Assassin’s Creed Valhalla, che si dimostra incapace di mantenere una sua identità
Dopo quella che è stata a tutti gli effetti un’intera generazione, Assassin’s Creed Valhalla è diventato uno di quei capitoli della serie che sanno mettere d’accordo critica, fan e giocatori meno appassionati, come non accadeva dai tempi di Black Flag. Non è forse un caso che il team sia lo stesso.
Per chi segue da tempo il brand la cosa era alquanto prevedibile, proprio in virtù del gruppo di persone che hanno lavorato su questo capitolo specifico: dopo aver immaginato una formula che spezzasse la monotonia della serie (le battaglie navali di Black Flag, enormemente ampliate da Assassin’s Creed III), e dopo aver di nuovo aggiornato la saga prendendo in prestito la formula di The Witcher 3 (con Origins), con Assassin’s Creed Valhalla Ubisoft Montreal ha potuto espandere alcune sue idee e perfezionarle, creando un sandbox capace al contempo di prendere qualcosa da tutti i colossi del settore (la bussola di Bethesda, gli eventi casuali da Rockstar, la struttura ruolistica di Cd Projekt Red), ma anche di mostrare le sue peculiarità e originalità. Sia quelle legate al brand di Assassin’s Creed (stealth sociale, Animus, ecc.), sia quelle attribuibili al contesto storico prescelto, soprattutto da un punto di vista pop (bruciare monasteri, fare gare di bevute, persino sfidarsi con versi in rima, ecc.).
Dal punto di vista produttivo il gioco è, in effetti, difficilmente criticabile: la quantità di contenuti è spaventosa; il supporto post lancio è già il più grande di sempre; la varietà di missioni disponibili è francamente sorprendente; i riferimenti alla lore della saga sono numerosissimi e ben piazzati, e sanno toccare le corde emotive di tutti i più appassionati. Sì, certo, i problemi delle IA sono sempre gli stessi, così come la pochezza del sistema di combattimento ricalca a grandi linee tutti i recenti open world dell’industria, ma d’altronde, ribadisco, se vogliamo recensire Assassin’s Creed come un prodotto, dobbiamo farlo tenendo conto del fatto che ha un target. Ora, mi pare auto-evidente che quel target abbia detto a più riprese che di un sistema di combattimento stile soulslike gliene freghi ben poco, e ha anche dimostrato che di clamorose regie dal gusto “Sundance Festival” gli interessi il giusto.
Attenzione, sia chiaro che come in tutte le colossali produzioni odierne, ci sono delle critiche “produttive” comunque spendibili, che saranno sicuramente sistemate nei primi mesi post-lancio. Sono le classiche problematiche legate alla cosiddetta “quality of life”, aggiustamenti che inspiegabilmente vengono fatti di capitolo in capitolo, ma che non vengono trasferiti da quello vecchio a quello nuovo. Si pensi, per dirne una, alla possibilità di dividere l’inventario ludico da quello estetico, chiesta a gran voce dai fan con Odyssey e, appunto inspiegabilmente, assente in Valhalla, e che ci obbliga ad apparire con set sinceramente bruttissimi, a volte.
C’è poi il problema dei glitch, dei cali di frame, delle animazioni un po’ scattose nei momenti di combattimento e del parkour non fluidissimo, ma sono oramai elementi quasi identitari della serie: è come quando ti lamenti per tanto tempo con una persona a cui vuoi bene, ma lei non cambia; dopo un po’, se il problema è una piccolezza, di solito si dice “è fatto così”. Ecco, Assassin’s Creed Valhalla è fatto così, e pare che alla gente non interessi poi molto: miglior lancio della storia della saga, vagonate di copie vendute, Ubisoft felicissima, tutti a casa, circolare.
In questa assoluta e perfetta pienezza produttiva, ho vissuto 30 ore circa di grande soddisfazione, esplorando chilometri e chilometri di mappa senza alcun tipo di interfaccia (rimossa nel menù) e con assassinii immediati dopo tanti anni (anche questo selezionato nel menù). Superate queste ore, ne ho vissute altre 30 dove ripetizione, noia e “il già visto” iniziavano a tediarmi, anche perché, come in tutti i sandbox di questo tipo, la narrazione iniziava a non avere tempi sostenibili e credibili.
Inoltre, la banalità dei personaggi, la scarsa qualità delle quest (tranne alcuni eventi casuali) e la generale eccessività delle attività (raramente c’è quell’evento memorabile perché singolo, è tutto in serie di 10, 15, 20 e a salire) non aiutano a superare queste fasi, che evocano troppo da vicino le sensazione del già bulimico Odyssey. Tutto ciò anche perché, mentre statistiche e racconto cambiano o evolvono, le interazioni rimangono sostanzialmente identiche, e in un gioco principalmente basato su interazione ed esplorazione è questo forse il limite maggiore: d’altronde, nella scelta tra raccontare e far progredire, il prodotto deve tendere verso la seconda.
Poi per fortuna, una volta finita l’adolescenziale e titubante trama principale, il mondo di gioco si lascia definitivamente esplorare in libertà, superati i suoi livelli più elevati e rimossi i paletti narrativi più ingombranti. È in quei momenti di intimità che Assassin’s Creed Valhalla acquista valore, arricchendosi di storie, frammenti e racconti individuali, nati integralmente dalla voglia di esplorare di chi gioca.
Oddio, forse dico così perché penso a me stesso, ma immagino che tonnellate di giocatori si dedichino a togliere ogni singolo simbolino sulla mappa, altrimenti non li metterebbero. Eppure, anche quelli sono stati fatti con un briciolo di impegno in più: lontani sono i tempi delle piume sui torrioni; questa è l’era dei forzieri nei pozzi. Che non si pensi che all’improvviso Ubisoft sia diventata maestra di narrativa ambientale, sia chiaro: ci sono livelli ben pensati e dungeon credibili, ma al contempo ritroviamo le care stanze senza porte, tesori in luoghi assurdi e ricompense immotivate sparse ai quattro angoli della terra. C’è però una generale e maggiore sensibilità verso questi problemi atavici dell’open world, e lo si percepisce lungo tutta l’esperienza.
Impossibile, in tal senso, non citare l’altro grande Nemico Pubblico del gamer dopo le Torri d’Osservazione: gli accampamenti. Dopo Far Cry 3, ogni sandbox al mondo (forse tranne, guarda caso, quelli Rockstar, Bethesda e CD Projekt) ha avuto accampamenti di ogni sorta da ripulire, e la cosa è diventata quasi una legge non scritta: persino Horizon li ha inseriti, nonostante fosse basato sul combattimento con bestioni immensi e con umani dall’IA terrificante. Ecco, Assassin’s Creed Valhalla finalmente si libera del gioco di questa meccanica, che non scompare ma del tutto ma che viene integralmente “giustificata” dalla trama, nel senso che li svuoteremo tutti in missioni principali, o con i raid vichinghi dedicati, che danno molto più gusto e imponenza a quella che altrimenti sarebbe l’ennesima attività di ripulitura della mappa. Anche qui, un tatto maggiore nei confronti di stilemi che, però, sono comunque presenti.
Assassin’s Creed Valhalla dunque non solo sembra un prodotto perfetto per il suo target di riferimento, ma prova persino a fare qualcosa di diverso per abbracciare altre filosofie creative: come detto in apertura, prende un po’ da tutti, forse senza capirne al 100% la filosofia (mettere i livelli e poi imitare Rockstar? Citare palesemente The Witcher 3 e fare tre build in croce? Mettere la bussola di Bethesda ma togliere ogni genere di sistemicità alla mappa?), ma comunque ci prova. Sarà per questo che ho avvertito un costante sali e scendi emotivo e d’interesse nei confronti del gioco, che mi ha fatto sentire a tratti pieno, forse troppo pieno, e altri vuoto, forse troppo vuoto. Ma non vuoto nel senso positivo del termine, ossia con i miei pensieri: vuoto nel senso di azione meccanica, fatta ripetendo il tutto senza pensare, seguendo icona per icona e indicatore per indicatore.
Avendo però rimosso completamente l’interfaccia (cosa che consiglio anche perché quei poveri cristi di sviluppatori hanno inserito comunque feedback sonori e visivi per sostituire l’HUD), un giorno ero nella Foresta di Sherwood quando, sentendo una serie di ululati, mi sono subito nascosto nell’erba alta. Non avendo indicatori intorno a me, ho attivato l’Occhio dell’Aquila, per capire esattamente dove fossero gli animali, per aggirarli. Eppure, nonostante le figure rosse del pericolo fossero ben lontane, sentivo un forte guaito vicino a me, praticamente a pochi metri, e non capivo dove fosse. Muovendomi lentamente, vidi a un tratto un lupo sdraiato per terra, come dormiente, e iniziai a guardarmi in giro per capire come aggirarlo, quando lo sguardo si posò sulla tagliola che ne impediva i movimenti, e che gli strozzava la zampa. Rimanendo chinato, tagliai i ferri che bloccavano la bestia, pronto al suo naturale attacco o fuga: il lupo iniziò invece a guaire di gioia, rimanendomi vicino per tutta la foresta, e abbandonandomi solo al limitare della stessa. In un lampo si voltò, e corse verso il buio dei rami.
La missione successiva, dieci lupi stazionano immotivatamente sotto una torre di guardia, e sono costretto a ucciderli tutti per salvare l’idiota che si trova lì in alto, per proteggere chissà che podere, chissà che proprietà. Cosa significano questi eventi? Che legame hanno tra di loro? È la stessa persona ad aver pensato la tagliola e la missione, o sono persone diverse? Erano in conflitto tra loro nel disegnare queste missioni, così come lo sono i significati di questi due piccoli racconti? O non si sono mai conosciute, e tali eventi sono solo il prodotto di narrazioni su commissioni svolte nei vari team Ubisoft sparsi per il mondo? Chi lo sa.
Forse, almeno indirettamente, il valore più alto di Assassin’s Creed Valhalla risiede nel fatto che non importa quanto un prodotto possa essere confezionato su basi e modelli di targhettizzazione avanzatissima e ottimizzata: finché alla base di tutto ci sarà un processo creativo, esplosioni (seppur minime) di vari significati saranno presenti in ogni film, videogioco, fumetto, libro o graffito che arricchisce le nostre monotone strade. E quindi avrà sempre qualcosa per ciascuno di noi, anche se fosse la più minuta e insignificante delle esperienze, probabilmente lasciata lì come sfogo creativo da qualcuno che sta già combattendo (come molti ex dell’industry ci raccontano) per dare luce alla sua visione. È solo che, dopo averla vissuta, come spesso mi accade forse rimarrete delusi da come produzioni colossali possano agilmente costruire oggetti così grandi eppure così vuoti, e da come invece momenti così piccoli e insignificanti possano racchiudere in sé stessi emozioni incredibilmente più ricche, complesse, piene.