Dopo aver completato due dei tre rami narrativi, eccovi il giudizio intermedio sull’ultimo capitolo della saga: Assassin’s Creed Valhalla
Nella prima parte di questa mia analisi su Assassin’s Creed Valhalla, avevo espresso pareri molto positivi sulla possibilità di personalizzare l’esperienza, sull’allontanamento dal modello di CD Projekt Red e un avvicinamento a quello Rockstar, e sulla qualità generale dell’open world. Più di ogni altra cosa, ero però felice dell’apparente scelta di Ubisoft di puntare sul “di meno è di più”, dato che i contenuti palesemente utili solo all’accrescimento fittizio delle ore di gioco sono stati decisamente depotenziati. Dopo aver più che raddoppiato le mie ore sul gioco Ubisoft (sono circa a 70 ore complessive), ho smorzato di molto gli entusiasmi sulla qualità generale del progetto, dato che purtroppo la sua natura di prodotto d’intrattenimento colossale ne forza certe strutture in un modo che impoverisce quanto di buono è stato fatto nelle prime ore. Mi spiego meglio.
Come con Odyssey, Assassin’s Creed Valhalla presenta una struttura narrativa in tre filoni, che possono essere completati in momenti e in turni diversi, ma che vanno tutti esauriti per poter vedere i fatidici “titoli di coda”. Di conseguenza, la durata del gioco può apparire estenuante, almeno per chi volesse arrivare al finale “completo” più o meno velocemente, senza dover giocare un po’ tutto quello che viene proposto nel corso dell’esperienza. In realtà, in tal senso il gioco è strutturato proprio come una sorta di saga norrena, dove i capitoli sono ben divisi e strutturati tra loro, ed è quindi assolutamente normale e sensato che si “dilunghi” così a fondo: è un gioco che può benissimo essere intervallato con altro, che propone una narrazione a capitoli e a zone che si sposa benissimo con i temi del gioco.
Sebbene la durata immensa dell’esperienza sia sensata, soprattutto perché il rapporto tra collezionabili a casa ed effettive missioni narrative tende enormemente a vantaggio di quest’ultime, a lungo andare si è perso quel feeling alla Red Dead Redemption, ed è aumentato quello alla The Witcher, invece. Faccio questi paragoni non tanto per generare un confronto, ma perché sono le evidenti influenze alla base dello sviluppo, e la cosa emerge con forza man mano che si procede nel gioco. Infatti, sul lungo periodo i problemi tipici delle esperienze di quella tipologia si fanno sempre più marcati ed evidenti: i toni delle quest cambiano repentinamente e senza coerenza tra di loro; il level design di molti collezionabili e oggetti da trovare perde di credibilità o diventa ripetitivo; le conseguenze delle azioni del giocatore sono difficilmente leggibili e non sempre si tiene conto del suo agire.
Piuttosto che concentrarsi solamente sulla ricostruzione di un mondo da navigare con curiosità, Ubisoft ha comunque optato per la progettazione di spazi da leggere in ottica di livelli, potenziamenti e completamenti, e purtroppo queste due anime entrano in un conflitto abbastanza evidente e che sembra sempre di più alla base di ogni grande produzione, che spesso troppo vuole e poco stringe. E quindi ci ritroviamo a vivere nei panni di un vichingo in epoca d’invasioni e razzie, ma il linguaggio che usiamo è sostanzialmente lo stesso di quello dei capitoli in Egitto, o quelli in Grecia. Alcune aggiunte, come quella del corno o del cappuccio, arricchiscono lievemente gli strumenti espressivi, ma in decine e decine di ore di gioco non offrono una distinzione così netta da poter essere palpabile.
E tutto ciò è un peccato, perché dal punto di vista squisitamente “fideistico” nei confronti della saga, Valhalla fa un lavoro eccezionale. Avevo pochi dubbi a riguardo, dato che da McDevitt sono nate le migliori sceneggiature della serie, ma tant’è: colpi di scena, riferimenti al passato, database immensi e CVP a mai finire, con l’aggiunta di comprimari che restituiscono un sapore di “Assassin del bei tempi” che avevamo riassaggiato con Origins (guarda caso, sempre con McDevitt), ma che complessivamente mancava alla serie da Assassin’s Creed Black Flag.
Nonostante queste comunque apprezzabili attenzioni all’utenza più affezionata (che però sembra essere trattata saltuariamente giusto per non alienarla del tutto), la seconda parte di questo mio viaggio ha raffreddato di molto i miei primi, caldi giudizi su Assassin’s Creed Valhalla. Tempo fa, su queste pagine, mi chiedevo se il gioco sarebbe stato un more of the shame, nel senso di un gioco che afferma di voler dire una cosa, per poi finire a non dire nulla, o dire qualcosa di completamente diverso.
A qualche decina di ore dalla fine, mi sento purtroppo di dire che Assassin’s Creed Valhalla cerca di dire tante, tantissime cose, e alcune riesce persino a dirle con un certo tatto e addirittura complessità, ma la maggior parte di queste finiscono per perdersi in un marasma di “cose” che riempiono molto tempo, senza però attivare particolarmente le nostre emozioni, o le nostre sinapsi. Nell’ultima parte del viaggio, vedrò quanto il gioco riuscirà a liberarsi da questa confusione.