Vediamo sempre più spesso attori che diventano registi, autodirigendosi. Ma a quando risalgono le origini del “fenomeno”?
C’era un tempo in cui la distinzione tra attore e regista era netta e incontrovertibile, sia in Italia che all’estero; ognuno era al proprio posto, nel pieno rispetto dei ruoli.
Arrivò poi inevitabilmente il giorno in cui le cose cambiarono, e nel Belpaese questo processo prese piede a tutti gli effetti negli anni Sessanta.
A onor del vero già in precedenza ci furono nel mondo della settima arte dei tuttofare che provarono ad anticipare i tempi, come già dall’inizio degli anni Quaranta fece Vittorio De Sica o alla fine del medesimo decennio Aldo Fabrizi, che si occuparono della direzione e della scrittura (per Fabrizi anche produzione) di diversi film a cui presero anche parte come attori, ma – come dicevamo – le cose cambiarono definitivamente dal ’60 in poi, quando il box office – o per meglio dire botteghino – vedeva sbigliettare in modo monopolistico l’asse dei “Cinque colonnelli della risata”, ovvero Alberto Sordi, Vittorio Gassman, Marcello Mastroianni, Nino Manfredi e Ugo Tognazzi. Fu proprio quest’ultimo, nel 1961, ad avviare tra loro la tradizione della star che si autodirige, nel film Il mantenuto, anche se a dirla tutto – a sessant’anni di distanza – bisognerebbe comprendere se Tognazzi lo diresse davvero o firmò semplicemente la regia per questioni di carattere pratico.
In seguito l’attore si cimentò in una manciata di occasioni dietro la macchina da presa, ma fu più un vezzo che altro e nella maggior parte dei casi lasciò la direzione a veri mesterianti (e all’epoca ce n’erano di grandi).
Alla regia in quegli anni si avventurò anche un altro dei Colonnelli, Nino Manfredi, in un episodio del film antologico L’amore difficile (1963). Passare dall’altra parte della barricata gli piacque non poco, ma anch’egli fu restio a riproporsi in queste vesti negli anni a venire, salvo un paio di casi circoscritti, ovvero il film Per grazia ricevuta, del ’71 e Nudo di donna, con quest’ultimo che lo vide subentrare al regista Alberto Lattuada per via di un particolare screzio tra i due, a quanto pare non risolvibile e che si concluse con l’abbandono del progetto da parte di Lattuada, che peraltro non era certo l’ultimo arrivato.
Ad ogni modo il dado ormai era tratto e autodirigersi per i grandi attori iniziava a diventare quasi la normalità, oltre che essere un modo per evitare di piegarsi alle regole e le imposizioni dei registi, alle quali sappiamo che le star sono spesso riluttanti, come nel caso del sovracitato Manfredi, che fece lamentare più di qualche cineasta (oltre al caso di Lattuada).
Uno degli habitué al fenomeno dell’autodirezione (negli States li chiamano i dir-actors) fu senza alcun dubbio Alberto Sordi, che da Fumo di Londra del ’66 firmò la regia di quasi un terzo dei film a cui partecipò, diventando un tuttofare come pochi in Italia. Tra questi dobbiamo segnalare – giocoforza – anche una star che non rientra del tutto nella categoria degli attori o del cinema in generale, nonostante una discreta filmografia. Stiamo parlando di Adriano Celentano, che in modo totalmente anarchico e senza paura si autodiresse nel 1964 in Super rapina a Milano, e fece lo stesso in altre occasioni.
Tra coloro che hanno fatto dell’autodirezione uno stile di vita, va di certo menzionato pure Nanni Moretti, che esordì con Io sono un autarchico (1976), non il suo film più riuscito per poi ripetere la formula molte altre volte, con risultati decisamente migliori.
E comunque Moretti non era uno sprovveduto, così come non lo è mai stato un altro degli attori-registi per eccellenza, soprattutto tra quelli del filone più recente: Carlo Verdone.
Nel 1980 era un cabarettista, questo è vero, ma uno di quelli con un eccezionale background. Figlio di Mario, storico del Cinema, il nostro caro Carlo aveva conseguito il diploma di regista al Centro Sperimentale, e quindi aveva tutte le carte in regola quando con grande sorpresa, Sergio Leone gli propose la regia di Un sacco bello, caricandolo di una responsabilità gigantesca in quanto avrebbe dovuto occuparsi della direzione, contribuire al soggetto e alla sceneggiatura ed essere il protagonista peraltro coprendo più ruoli, come ben sappiamo.
Il risultato fu un successo e autodirigersi anche per Verdone divenne una consuetudine, che si ripeté in altri 26 film.
Insomma, gli esempi sono tanti e potremmo proseguire con Sergio Rubini, Sergio Castellitto o con Michele Placido, che peraltro ha firmato la regia di film grandiosi e forse è fin troppo sottovalutato dietro la macchina da presa nonostante qualche premio e riconoscimento. Per non parlare poi del successo di Roberto Benigni, che con La vita è bella sbancò addirittura agli Oscar del 1999.
Dall’Italia agli Stati Uniti
E il fenomeno dei dir-actors, lo sappiamo, non è certo una prerogativa del grande schermo italiano e quasi in contemporanea prese piede anche negli Stati Uniti, perché lì – salvo alcuni casi più isolati negli anni ’50, come per Josè Ferrer – potremmo farne risalire le origini al 1966, con Che fai, rubi? di Woody Allen, il primo dei più grandi artisti del cinema a stelle e strisce a saggiare le sue doti nell’autodirezione. Una data comunque nevralgica, che ha sancito anche negli Stati Uniti la consacrazione del fenomeno degli attori-registi che negli anni seguenti ci ha regalato sia qualche caso sporadico, – come Robert Redford che nel 1980 firmò la regia di Gente comune, a cui fecero seguito “soltanto” otto direzioni, o ancor più occasionale, come per Kevin Costner e il suo Balla coi lupi, nel 1980, uno degli unici tre lungometraggi in cui si autodiresse, al netto di una filmografia ben più ampia – sia artisti che ne hanno fatto un marchio distintivo, come Mel Gibson o Clint Eastwood, tanto per citarne un paio.
I dir-actors, gli attori-registi o comunque li vogliate chiamare rappresentano ormai la normalità nel mondo della settima arte e in molti casi anche una garanzia di successo per determinati film, oltre al fatto che in tanti hanno trovato maggiore approvazione dietro la macchina da presa piuttosto che davanti, dimostrando di saperci fare e non poco. Vero, Ben Affleck?