Una serie con lo spazio, non sullo spazio: Away ha una dimensione squisitamente umana
“I voli spaziali prima sulla Luna, poi su Marte, non è questo il più antico desiderio dell’uomo, la più grande speranza di gloria?”, scrive Philip K. Dick nel suo romanzo La svastica sul sole. E Away, tra le novità del catalogo Netflix disponibili dal 4 settembre, fa leva proprio su questo antico desiderio: ne prende l’essenza, la trasforma in parole e immagini, e ne fa un uso perfettamente rispettoso.
Ideata da Andrew Hinderaker, con Jason Katims e Matt Reeves come produttori esecutivi, la serie ruota intorno alla (per ora fittizia, magari futura) missione Atlas I, che ha il ben ambizioso obiettivo di portare per la prima volta nella storia un gruppo di astronauti su Marte. Capitanato da Emma Green (Hilary Swank), l’equipaggio si imbarca per un lunghissimo viaggio interplanetario che metterà alla prova in ogni modo possibile e immaginabile non solo gli astronauti, ma anche le loro famiglie rimaste sulla Terra.
Luci e ombre di Away
Visivamente, Away è un prodotto davvero meraviglioso. Inquadrature mozzafiato, quasi cinematografiche, incorniciano uno spazio aperto che fa sognare: particolarmente azzeccata in questo senso è la fotografia, che va ad aggiungere ulteriore valore alla magnificenza della galassia con incredibili giochi di luci e ombre. Anche costumi, set e trucco sono estremamente curati e realistici, a sottolineare che, nonostante l’ambientazione spaziale, Away è tutto meno che una serie fantascientifica.
Particolarità di Away è infatti il suo trattare lo spazio senza lasciare spazio (no pun intended) allo sci-fi di nessun genere. È una serie che racconta di un gruppo di umani che fanno del loro meglio per sopravvivere a una missione così ad alto rischio, già di per sé abbastanza complicata senza che ci si mettano alieni o altri “intrusi”: gli intrusi, semmai, sono loro, inviati dalla Terra per abitare un pianeta finora incontaminato. “Non si tratta di conquistare lo spazio, ma di sopravvivere ad esso”, dice Emma in uno degli episodi della serie, in quella che forse è la frase più rappresentativa del cuore di Away.
Da una parte c’è quindi l’avventura spaziale dell’equipaggio, dall’altra l’avventura terrestre dei loro cari – e in particolare della famiglia di Emma – che cercano di abituarsi a una vita senza di loro. A colpire di Away è soprattutto la sua capacità di instaurare relazioni verosimili tra i personaggi, grazie a una scrittura che ne tratteggia bene la psiche: impossibile non affezionarsi, soprattutto dopo aver condiviso con Emma Green e compagni le gioie e i dolori (e il fiato sospeso, soprattutto) dell’essere rinchiusi in una navicella diretta su Marte.
Tuttavia, proprio come la luce illumina solo parte di un pianeta lasciandone un’altra in ombra, la sceneggiatura che tanto dà ad Away scivola spesso e volentieri su una buccia di banana chiamata prevedibilità. Pur diversi tra loro, i dieci episodi della serie seguono infatti più o meno tutti lo stesso schema: si presenta un problema, causato da uno degli astronauti o da un agente esterno, e l’equipaggio collabora con Houston per risolverlo mentre viene svelato qualcosa sul passato di qualcuno. Parti di storia si rifanno un po’ troppo a cliché già noti, in particolar modo l’arco narrativo legato alla figlia di Emma, Lex, che in alcune parti somiglia forse eccessivamente a stralci di rom-com sui problemi adolescenziali.
Per quanto evolvano nel corso dei dieci episodi della serie, è inoltre innegabile che alcuni dei personaggi siano figli di preconcetti più che di ispirazioni reali – parlo con te Wang Lu, cittadina cinese algida e controllata dal concetto di onore, e con te Misha Popov, navigato astronauta russo che ha sacrificato l’amore della figlia per la patria (e che produce vodka scadente). E allo stesso modo, alcuni dialoghi rispondono a ciò che gli americani chiamerebbero cheesy, e che in questa sede definiremo stucchevoli: pillole di saggezza, girl power ed ecologia vengono dispensate qui e lì senza un vero e proprio filo conduttore, e senza un legame con il contesto.
Input emotivi a cui si perdona tutto
Nonostante alcune sbavature, comunque, Away resta un prodotto di altissima qualità, tanto a livello tecnico, quanto a livello contenutistico, grazie anche alla performance di una strepitosa Hilary Swank perfettamente immersa nel ruolo di Emma Green. La sua capacità di creare e descrivere relazioni interpersonali che trascendono il concetto di spazio, nel vero senso della parola, è ciò che la rende preziosa: vale la pena chiudere un occhio sulle imperfezioni di una serie così vera, in grado di arrivare dritta al cuore di chi guarda, per riuscire a coglierne solo il meglio.